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 2014  aprile 30 Mercoledì calendario

IL BENE FRA LE RIGHE


Dire cos’è il Bene, è una parola. Dire che cos’è “bene” è molto più facile: è una parola! Invitato al Salone del Libro ad affrontare l’imbarazzante argomento ho messo in chiaro fin da subito che mi sarei mantenuto abbondantemente al di qua del Bene e del Male. Del resto sono sempre stato affascinato dal fatto che per Bene e Male si intenda sia la coppia delle forze ultraterrene che si contendono l’animo umano sia le risposte minime alla più umile delle domande: “come stai?”. Sommità celesti e banalità più che terrene, nella stessa manciata di lettere.
La parola “bene” ha peraltro il pregio di mostrarci quanto sia ingenuo (e diffuso) confondere la lingua con il lessico e pensare che il linguaggio non sia che una nomenclatura. Qua le cose, là le parole. È la concezione per cui a Macondo quando si diffonde la peste dell’amnesia del linguaggio si attaccano etichette alle cose, per ricordarne i rispettivi nomi. Bella trovata letteraria, ma filosofia del linguaggio non proprio profonda. Non tutti i sostantivi nominano cose a cui attaccare un biglietto; ma soprattutto non tutte le parole sono sostantivi. A che cosa attaccare il biglietto su cui è scritto “bene”? E “benone”? E “benissimo”?
Se apriamo il vocabolario vediamo che la parola “bene” si divide in due voci. Nella seconda è appunto “il Bene”, ciò che di buono, onesto e giusto esiste o si vorrebbe esistesse secondo questo o quel principio etico. È l’accezione cui ricorriamo quando diciamo: “Fare il Bene”. Nella prima voce “bene” è l’avverbio di “fare bene”; oppure l’aggettivo di quando si dice “la gente bene”; oppure l’interiezione “bene”, che si abbrevia anche nel pudico “beh” e nell’ubiquo “vabbeh”. Insomma, il “Bene” come principio etico si incomincia ad annacquare negli altri e meno alati usi del sostantivo (“bene di consumo”, “beni culturali”, “ti voglio bene”, “ben di Dio”) ma poi è presente nel linguaggio, e con la massima frequenza, nelle forme più servili e quotidiane dell’intercalare (“bada bene”), dell’esclamazione (“benissimo!”), dell’avverbio (“va bene”). Secondo il principio di Donna Prassede, voler “fare il Bene” è considerato più nobile di saper “fare bene”. Sarà, ma dentro alla lingua siamo più che altro alle prese con un bene minuscolo e frattale, di modesta ambizione. Una spintarella discorsiva che diamo alle cose perché vadano nella direzione desiderata, sperando che sia anche quella giusta. E, appunto, sperandolo bene.

Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 30/4/2014