Federico Rampini, la Repubblica 30/4/2014, 30 aprile 2014
NON È UNO SPORT PER RAZZISTI IL BASKET CACCIA IL MILIARDARIO ANTI-NERI
NEW YORK.
Non c’è spazio per un razzista nello sport americano, neanche se miliardario. La sentenza esemplare della National Basket Association (Nba) segna una pagina di storia. Ne fa le spese il celebre Donald Sterling, padrone dei Los Angeles Clippers: espulso a vita, bandito dagli stadi, dagli allenamenti e dagli spogliatoi, costretto ben presto a vendere la sua squadra, e multato per 2,5 milioni di dollari. La raffica di sanzioni che lo condanna senza appello come persona non grata, punisce le sue intemperanze contro gli afroamericani. Il caso Sterling è divampato nello spazio di un weekend, con una virulenza tale da costringere Barack Obama a parlarne dall’altro capo della terra, nel bel mezzo della sua conferenza stampa in Malesia.
L’ottantenne Sterling non immaginava che la sua ex amante di 31 anni, la modella Vanessa Stiviano, stava registrando quella telefonata. E lui si è sfogato senza ritegno, in un accesso di gelosia. Aveva appena visto una foto della Stiviano su Instagram, abbracciata al campione afroamericano di basket Magic Johnson. «Non mettere quello su Instagram – è sbottato lui – e non me lo portare alle partite. Mi dà fastidio che tu ti faccia pubblicità con i neri. Ma chi te lo fa fare? » Non si sa se la Viviano si sia offesa perché lei stessa è di origini miste, sia afro che messicana. O se fosse in cerca di una vendetta contro l’ex amante, la cui moglie le sta facendo causa per recuperare regali milionari. O infine se abbia visto balenare l’occasione di calamitare su di sé l’attenzione sui media. Qualunque cosa volesse, ha fatto centro oltre le aspettative. Il mondo del basket professionistico è fatto per il 75% di atleti afroamericani. La reazione è stata spettacolare, unanime e durissima. I giocatori dei Clippers hanno cominciato la protesta scendendo in campo domenica con le maglie a rovescia, e buttando in mezzo al rettangolo di gioco tutte le tute d’allenamento. I compagni di squadre concorrenti li hanno seguiti in un gioco di solidarietà all’insegna della fantasia, con i San Antonio Spurs e i Portland Trail Blazers “calzati di nero” per esibire l’orgoglio del colore. Naturalmente ha detto la sua anche Magic Johnson, una leggenda, l’ex campione sceso in politica che oggi è il sindaco di Sacramento: «Siamo a un appuntamento storico per la Nba, deve prendere la massima sanzione possibile». Obama ha unito la sua voce al coro di condanne contro il razzismo. E poi è cominciato il fuggi fuggi degli sponsor. Spaventati dalla possibilità di diventare a loro volta i bersagli della protesta, uno dopo l’altro hanno stracciato i contratti pubblicitari tutti i grandi marchi associati con i Los Angeles Clippers: la compagnia aerea Virgin, la bibita Red Bull, la casa automobilistica Kia, l’assicurazione State Farm. Un disastro economico. L’onda da tsunami delle reazioni ha cominciato a investire i vertici della Nba, sotto pressione da tutte le parti. Nei media si è creata una insolita unanimità, con i tabloid di destra (il Daily News, il New York Post di Rupert Murdoch) per una volta allineati insieme al New York Times nella condanna. Quando il Commissioner della Nba, Adam Silver, ha preso la parola ieri alle ore 14 della East Coast, il suo intervento è stato preannunciato dai tam tam delle Breaking News riservati ai grandi eventi: catastrofi, stragi, elezioni presidenziali. Lui non ha deluso le attese. «Le vedute di Sterling – ha dichiarato secco il capo della Nba (bianco) – non hanno cittadinanza qui dentro. La sanzione contro di lui è la pena massima nel nostro statuto. Siamo unanimi nel condannarlo. E ora farò tutto quanto in mio potere per costringerlo anche a vendere la sua squadra». Quest’ultimo è l’atto più clamoroso. Nella patria del capitalismo, è quasi impensabile un castigo di questo genere. Cacciarlo a vita dagli stadi del basket è un conto; costringerlo a vendere un bene di sua proprietà (la squadra) rasenta l’esproprio autoritario. Tuttavia il capo della Nba ha ricevuto solidarietà anche dai proprietari delle altre squadre, che si sono già detti pronti a coalizzarsi per spingere Sterling verso l’uscita, anche offrendosi di rilevarne le quote dei Los Angeles Clippers.
Sterling non è nuovo a queste malefatte, nello sport come in altri settori di attività. Nel 2009 il manager precedente della sua squadra gli aveva fatto causa denunciandone «l’atteggiamento razzista, da latifondista delle piantagioni nel profondo Sud». Nello stesso anno il Dipartimento di Giustizia aveva costretto Sterling a patteggiare un risarcimento di 2,7 milioni per il suo razzismo in altro campo: da magnate immobiliare, lui aveva l’abitudine degli sfratti discriminatori, non sopportava che nei palazzi di sua proprietà ci fossero inquilini di colore. Quelli però non avevano gli stessi mezzi per difendersi. Come businessman, Sterling ha fatto un errore di calcolo madornale, affrontando l’élite dei campioni di basket. Oltre che essere a stragrande maggioranza afroamericani, sono anche una categoria combattiva, consapevole dei propri diritti, e con un seguito popolare straordinario.
Federico Rampini, la Repubblica 30/4/2014