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 2014  aprile 30 Mercoledì calendario

IL VECCHIO POETA E IL FIGLIOLO D’ANIMA: DIALOGHI IN LIBERT

È il 1955. Siamo a Trieste, «periferia insicura» d’Italia, città raggiante d’orgoglio e nostalgia per un passato che incrociava lingue e culture in una stessa identità, eppure già piegata verso il declino. Un funzionario delle Assicurazioni Generali accompagna il figlio a conoscere un collega che lavora come bibliotecario. Il ragazzo, Claudio Magris, liceale, ha 16 anni. L’amico del padre, Biagio Marin, poeta di riconosciuto prestigio, 64. Potrebbero essere nonno e nipote. Ma il vecchio, cui è morto in guerra l’unico erede maschio, Falco, «adotta» subito il giovane interlocutore: ne fa un suo «figliolo d’anima», corrisposto nella stima e nell’affetto. Sono intelligenze simpatetiche. E la diversità di prospettive (il primo, nato sotto l’impero austroungarico, sembra attardarsi su canoni estetico-filosofici d’inizio secolo; il secondo, che già riflette sulla crisi dei totalitarismi con cui si chiuderà il Novecento, coltiva precocissime curiosità in ogni campo) non condiziona il dialogo tra loro.
Parlano a lungo, quel giorno. «Di Platone, e soprattutto dei dialoghi socratici», ricorda l’allievo. Un colloquio che continuerà per una trentina d’anni e che è testimoniato da un vasto epistolario. Oggi lo si può leggere, con il supporto di qualche brano dei diari di Marin, in un volume (Ti devo tanto di ciò che sono , Garzanti) che compone l’affascinante racconto di un’amicizia fertile e non sempre facile. La parabola di una formazione che, mentre ci fa riscoprire l’autore di tanti versi nell’arcaico dialetto dell’isola di Grado, ci permette di ricostruire pezzi sconosciuti del percorso di Magris saggista, editorialista e scrittore. Due biografie sulle quali lievita la storia di «un’Italia civile che era forse solo una nostra esigenza» — come diceva Marin — e che è anche repertorio di personaggi e di avventure culturali.
Sono entrambi caratteri forti, e uno si affiderà all’altro in un rapporto destinato nel tempo a rovesciarsi, quanto a spinte protettive. Il «caro Claudio», approdato nella Torino di Bobbio, Getto, Vincenti e Mittner per gli studi universitari da germanista, confessa progetti, ambizioni e un tumulto di dubbi multilaterali (su arte, letteratura, filosofia, politica, religione) e accoglie le risposte con lo spirito di chi si dispone come una carta assorbente, includendole in sé. «Biasèto», il maestro di libertà, colma i suoi passi mancanti riversandogli frammenti delle esperienze vissute con Stuparich, Michelstaedter, Prezzolini, Giotti, Voghera, Jemolo, Caproni, Sereni, Pasolini, Turoldo. È però Scipio Slataper, morto giovanissimo, che gli viene in mente quando pensa a Magris, perché gli sembra un suo doppio, «armonioso, solare, integro, puro».
Volano le stagioni e il carteggio si snoda come un flusso di coscienza, nel quale i due monologano senza reticenze, a volte con punte d’asprezza. La tesi di laurea di Claudio sul «mito absburgico» è stampata da Einaudi e Marin vi coglie i segni di un destino importante, che quasi lo intimidisce. Lo vede emanciparsi da lui e teme di perderlo. A 27 anni Magris è in cattedra, prima a Torino, poi a Trieste. Si sposa con Marisa Madieri, lavora e viaggia febbrilmente, impegnato nella sua «buona battaglia», con un’ansia di conoscenza da ulisside. Le lettere e le visite a Grado si fanno più rare e brevi, ma trova il modo di curare un paio di antologie della sua prima guida morale (altri da associare nello stesso «stato di famiglia» saranno Singer, Canetti, Cavallari, quest’ultimo più fratello maggiore che padre).
È in quello scorcio di tempo che, mentre fa il soldato, va a trovare l’amico, ospite di una figlia a Roma. A tavola c’è anche Pasolini, e Marin osserva il confronto tra loro. Annota sul diario, il 9 gennaio 1966: «Nella conversazione il giovane Magris lo subissava. Eppure è uno degli uomini più intelligenti d’Italia, Pier Paolo… ma Claudio lo ha sbalordito. E io, lì, ad ascoltarli, pieno di meraviglia». Una meraviglia che il pupillo conferma con opere straordinarie, prima e dopo quel Danubio che lo consacra tra i grandi. Quando Marin scompare a 94 anni, nel 1985, è ormai sordo e quasi cieco, eppure fino alla fine si ostina a prendere appunti indecifrabili nei suoi diari. E si scopre che anche le ultime righe sono dedicate al «figliolo d’anima» che si era scelto nel 1955.

Le lettere qui pubblicate sono tratte dal volume di Claudio Magris, «Ti devo tanto di ciò che sono. Carteggio con Biagio Marin 1958 -1985», a cura di Renzo Sanson, Garzanti editore, pp. 406, e 18.60, da oggi in libreria. Il volume è corredato oltre che da un saggio di Sanson dal titolo «Claudio Magris nei diari inediti di Biagio Marin», da una conversazione, sempre di Sanson con Claudio Magris.


To, 13.6.64
Caro Marin,
il libro è bellissimo, e io lo rileggo con felicità: «e duta la to fiaba gera d’aria...». Lei è un grande poeta. Io lo so, credo in questa grande realtà e la dimostrerò. Chi altri ha oggi tanta ricchezza di canto?
Perché, a pag. 258, Lei ha omesso l’ultima quartina del Maistral d’istae : «Oh quel nuolo, maistral / che tu tu porti via / quel’ala de corcal / i xe la gno angunia!», che è una delle più belle cose che io ho mai letto? (...)
La abbraccia il Suo
Claudio

* * *
Grado 19 VI ’64
Caro figliolo,
mi chiedi perché a pagina 258 io abbia omesso l’ultima strofa, che a te sembra così bella. Non lo so, non lo ricordo. Ricordatelo tu per una futura ristampa. Può essere che qualcuno mi abbia consigliato a toglierla; può essere che la buona Alcea84 si sia dimenticata di essa e che poi io non l’abbia più ricordata. Proprio non lo so, e mi dispiace che tu non mi sia stato vicino in quel tempo. Comunque a tutti coloro che lo hanno visto, il libro ha fatto buona impressione. Pighi ne è rimasto commosso.
Ora si tratterà di preparare il nuovo volume, durante il mese di luglio e io spero di poter averti vicino almeno per sentire anche il tuo parere. E ricordati che il 19 settembre devi tenere qui la lezione sulla mia poesia e che deve essere tale da poter essere stampata, a ricordo. Attendo tue assicurazioni. (...)
Aurelio Ciacchi ieri mi ha chiesto se io non intendevo pubblicare, o lasciar pubblicare, i miei eventuali epistolari amorosi. Gli ho detto di no. E questo «no» ricordalo, per l’avvenire. Il rap-porto amoroso, se sottratto all’intimità, viene immediatamente falsato, sconsacrato. E io l’ho vissuto sempre con tutto il sangue mio caldo, ma anche con tutta l’anima mia che è altrettanto calda. Ciò che posso dare ai terzi di quella divina esperienza — la più bella, la più umana, la più divina di tutta la vita — è la poesia che ne è nata. Perciò ti prego fin d’ora di opporti, in nome mio, a qualsiasi tentativo di pubblicazione delle mie lettere d’amore.

La vanità femminile potrebbe indurre qualche mia amica, o qualche erede, a mettere in circolazione lettere che io desidero distrutte. E ciò anche perché c’è di mezzo l’anima delle mie figliole, e specialmente della Lella, che ne soffrirebbe offesa dolorosa. E così le mie nipoti.
Non ho rimorsi: ma il dramma l’ho patito e lo patisco ancora. Beato colui che è per struttura monogamo. Io sono stato poligamo tutta la mia vita. E devo dirti e posso dirti, che dall’amore libero, non congiunto alla procreazione e ai doveri familiari che ne derivano, mi è venuto molto del bene. Tutta la mia poesia amorosa è venuta di là.
Ti dico queste cose perché tu sei il mio figliolo e quindi l’erede mio spirituale per eccellenza. Certo, io ho scritto anche pagine belle alle mie amiche, ma per esse soltanto, per ringraziarle del bene che mi davano. Era uno scambio di grazia.
Mio caro Claudio, potrai trovare il tempo per rinvangare abbastanza nel mio passato — come ha fatto Ciacchi in questi giorni — per poter veramente ricostruire la mia persona e partendo da essa e dalla vita arrivare alla poesia?
È un grosso guaio per me che ho i giorni contati, che tu debba vivere lontano da me e ciò ancora certamente per molti anni. Temo che non ti avrò mai abbastanza vicino.
Perché non hai cercato Antonicelli?
Non presenterai in qualche rivista il «Non tempo del mare»?
Ti abbraccia e saluta
il tuo B. Marin

* * *

20 II ’75
Caro Marin,
ti sto scrivendo dal treno, che mi sta riportando a Trieste.
Sono stato felice di essere venuto da te, l’altra settimana, e ancora una volta ho ricevuto da te forza, chiarezza, armonia e salute.
Mi sento il tuo erede, e sento la tua vigorosa luce trasfondersi in me, divenire una parte di me. L’ho sentito proprio in questi giorni a Torino e a Milano, nei quali ho battagliato a testa alta e vinto contro qualche pesante aggressività plebea.
Io ti devo tanto. Naturalmente sono diverso da te, talvolta devo usare altri metri e altri linguaggi verso la vita, perché ogni uomo e ogni generazione devono tradurre l’eterno in forma e modi contingenti, a loro congeniali. Ma anche quando sembro lontano da te, è la tua via che cerco di battere — con passi miei.
Ringrazio Pina, cui debbo tanta luce chiara.
Un abbraccio
Claudio.

23.II.’75 – ore 16, sul quaderno di Marin: «Questa mattina ad onta del sole, ero molto depresso; poi la posta mi ha portato una lettera di Claudio Magris, molto calda e per me molto bella e tanto più cara al mio cuore, perché negli ultimi tempi mi pareva che Claudio si fosse allontanato da me».

***

Grado, 26 II ’75
Caro Claudio,
ho avuto la tua lettera scritta in treno, che ti portava a Trieste. Costituisce per me un bel dono e te ne ringrazio dal profondo. Ne avevo bisogno, perché mi era parso che tu ti fossi allontanato molto da me, proprio nella tua interiorità, nel tuo sentimento.
Anche io ho bisogno della tua parola di fede. La mia età comporta il «crepuscolo dei sensi», ma anche quello dell’intelletto, se non quello dell’anima. E questo venir meno in me della energia di pensiero, molto mi mortifica...
Vivo, sperimento veramente l’agonia.
Vedi p.e. il fatto che dei miei ultimi libri nessuno ha fatto menzione (ad eccezione di Marabini) e ciò ad onta del «Viareggio », mi ha profondamente turbato nella mia fiducia di avere fatto opera degna. A confortarmi è stato solo Voghera, con una dichiarazione magari ingenua, ma così affettuosa che mi ha consolato.

Grande in me la preoccupazione di non avere chi si prenda cura di ciò che ho fatto, dopo la mia morte. Ed ora la tua lettera porta scritto: «Mi sento il tuo erede». Queste parole mi sono di grande conforto e dal profondo te ne ringrazio, sicuro che così sarà. Sei tanto giovane ancora, ma pur già uomo sicuro. Mi è più facile andarmene sapendo che la mia opera avrà un curatore.
Quando verrai, mi dirai della tua battaglia, della tua vittoria a Torino e a Milano.
Leggendo la tua lettera, ero orgoglioso di te, e dalla lontananza della mia giovinezza mi è venuto in mente il «combatti Bharata» della Bhagavadgita, che anche tu hai citato nel tuo saggio bellissimo su «Paragone». Non dimenticare di farmi avere copia di quella «Paragone».
Anche Pina è stata molto contenta della tua lettera e del tuo saluto e di ringrazia. Ti abbraccia affettuosamente
l’ormai vecchio Marin

***
Trieste, 13.5.84
Caro Marin,
ho letto, l’altro ieri, la lettera che hai scritto a Cavallari. E ho sentito — nelle parole, nel tono — tutta la tua grandezza, che ci sovrasta tutti e ci nutre. Sono felice che in quella lettera tu mi abbia richiuso, per così dire, in te. Mi sono sentito, leggendola, piccola ma forte foglia del tuo grande albero. E ho sentito la vita di noi tutti fiorire e crescere in te.
Ti abbraccio
Claudio
Parleremo dei Diari. È bene che Garzanti se ne interessi.

***

Grado, 23 maggio 1984
Caro Claudio,
ti devo molte grazie per la calda lettera del 13 di questo mese e per quanto essa contiene.
Forse non meritavo tanto elogio da te; forse il mio isolamento mi crea prospettive più precise di quelle delle persone che vivono nelle grandi città e nel grande movimento. Io penso che un certo grado di astinenza dalla vita, stranamente la fa assaporare più profondamente. Naturalmente ognuno di noi ha il suo tempo e tu ti trovi ora nella tua grande estate piena di fiori e di frutti e di voglia di distaccarli tutti dai loro rami e di portarteli a casa e di riproporli poi sul piano dei tuoi scritti come valori eternali.
Ti ringrazio dunque molto della bontà con la quale mi hai scritto questa lettera e del dono affettuoso che mi fai di te stesso.
Mi sono fatto leggere il tuo racconto; si tratta di opera sottile e complessa e che io non mi sento ancora di poter giudicare. Forse prima di pubblicarla andava riscritta, potenziando i primi piani e delineando troppi richiami di dettaglio che erano delle semplici annotazioni.
Anche le piccole concretezze possono illudersi d’un possesso al quale non siamo arrivati. Questo scritto implica un’importante svolta per te; non vi è dubbio che si tratta di un problema di maturazione del tuo modo di sentire e di vedere e soprattutto di sintetizzare. L’eroe del racconto non riassorbe e non esprime e non rappresenta tutto l’ambiente e tutta la tragedia in esso immanente. Ma penso che se tu volessi riscrivere quello che tu, non so perché, ti sei ostinato a chiamare racconto — definizione che spettava ai lettori e non a te — potresti arrivare alla rivelazione di un nuovo narratore della letteratura odierna italiana.
Questo dunque il mio cordiale augurio. Per il resto ti ringrazio ancora una volta e affettuosamente ti abbraccio.
Biagio Marin