Massimo Gaggi, Corriere della Sera 30/4/2014, 30 aprile 2014
«Stavolta Barack Obama ha fatto la cosa giusta recuperando la capacità degli Stati Uniti di operare, almeno in Asia orientale, come una forza con la capacità imperiale di stabilizzare un’area cruciale del mondo: ha rassicurato gli alleati, ha mandato un messaggio chiaro alla Cina, ha rafforzato il dispositivo militare Usa nel Pacifico»
«Stavolta Barack Obama ha fatto la cosa giusta recuperando la capacità degli Stati Uniti di operare, almeno in Asia orientale, come una forza con la capacità imperiale di stabilizzare un’area cruciale del mondo: ha rassicurato gli alleati, ha mandato un messaggio chiaro alla Cina, ha rafforzato il dispositivo militare Usa nel Pacifico». Alla fine di un lungo viaggio in Giappone, Corea, Malaysia e Filippine, il presidente americano è parso irritato e anche frustrato per le critiche ricevute: troppo arrendevole nella crisi ucraina, poco determinato in Asia, l’area che ha messo al centro dei suoi interessi. Ma Robert Kaplan, il celebre analista del centro studi strategici Stratfor, firma di punta di The Atlantic e autore di importanti saggi sull’Asia, da Monsoon al recentissimo The Asian Caulderon (Il calderone asiatico), stavolta va controcorrente: pur avendo criticato Obama proprio un mese fa sull’Atlantic , descrivendo la sua come la prima presidenza post-imperiale degli Usa dalla Seconda guerra mondiale ad oggi, adesso corregge il tiro: «Il suo viaggio era necessario per la credibilità degli Stati Uniti e del suo presidente. Sarebbe stato irresponsabile non andare dopo il rinvio dell’autunno scorso imposto dalla battaglia sul bilancio federale». La stampa sembra delusa: una missione senza grandi annunci, un accordo militare con le Filippine giudicato modesto dal «New York Times». E l’incombente «distrazione» della crisi ucraina. «Il presidente degli Stati Uniti non può limitarsi a reagire quando c’è una crisi. Non può rinunciare ad andare in Asia perché c’è uno scontro in Ucraina. Non è il modo di fare politica estera: l’Asia è ormai centrale per l’organizzazione di tutta l’economia mondiale. E Giappone, Corea e Filippine sono legati agli Usa da trattati: doveva andare. La politica estera non è fatta solo di grandi annunci, ma anche si una costante attività di manutenzione: bisogna curare i rapporti, tenere aperti i canali. Anche rassicurare, certo. Mostrando al Giappone il suo sostegno, Obama ha dato un contributo alla stabilità nell’area: ha ridotto, ad esempio, il rischio di reazioni avventate di Tokyo, magari indotte dall’insicurezza. E non sottovalutate l’accordo con le Filippine: torniamo a una situazione simile a quella che avevamo in quel Paese prima del 1992, quando gli americani furono cacciati dalla base navale di Subic Bay. Presenza transitoria e non nuove basi permanenti, d’accordo, ma è quello che serve oggi: i tempi sono cambiati». Eppure il presidente pare frustrato dalla reazione dei media. Forse anche perché fin dalla prima conferenza stampa gli hanno chiesto se sulla difesa delle isole del Mar cinese controllate da Giappone ma rivendicate da Pechino, Washington non stia tracciando una «linea rossa» destinata a non essere rispettata, com’è accaduta per quella sull’uso delle armi chimiche in Siria. «Obama ha ragione a sentirsi frustrato: la stampa predilige l’azione: la vuole sempre e comunque. Perché non facciamo di più in Ucraina? Perché non interveniamo nella Repubblica Centrafricana? Andiamo a fare i gendarmi in Siria. Beh, non è così che si gestiscono gli affari internazionali: la politica estera non è filantropia. Non si ordina l’uso della forza con una telefonata al 911 (il numero per le chiamate d’emergenza come il nostro 113, ndr )». Questi suoi giudizi netti colpiscono perché anche lei di recente è parso critico nei confronti di Obama per le sue incertezze. Nel recente saggio sull’«Atlantic» difende la logica imperiale: imperi che dall’antica Roma agli Asburgo e agli Ottomani hanno governato il mondo garantendo un buon grado di stabilità e l’assorbimento delle tensioni interne grazie alla loro struttura multietnica. Gli Stati che hanno sostituito gli imperi in genere sono stati più liberi e democratici, ma spesso i nazionalismi hanno travolto tutto. Lei, poi, critica Obama per aver abbandonato la rotta di un «imperialismo soft». «È vero, ma nel viaggio in Asia quella rotta l’ha recuperata. Certo, a volte il presidente è apparso debole e indeciso. È successo, ad esempio, sull’Ucraina. Durante la sua recente missione europea ha pronunciato, a Bruxelles, un discorso debole. E, col senno di poi, forse avrebbe dovuto modificare il suo itinerario e andare anche in Polonia e nelle Repubbliche baltiche. Ancora: credo sia stato un errore escludere esplicitamente un coinvolgimento militare degli Usa in Ucraina. Intendiamoci: nella sostanza Obama ha ragione, ma in una situazione come questa non vai a dire a un avversario aggressivo come Putin: “Non ti preoccupare, io non interverrò”. Il tuo avversario non deve sapere con certezza cosa farai. Questo l’ha indebolito. E ha generato sospetti anche circa la sua fermezza in caso di crisi sulle isole del Mar della Cina». Un Obama post imperiale anche perché gestire un impero costa caro? E con la tecnologia dei droni e la capacità della Nsa di captare tutte le comunicazioni, l’America può ora colpire i suoi nemici senza più bisogno di una fitta rete di basi militari? «La tecnologia sta effettivamente cambiando l’equazione e il Pentagono deve sicuramente ridimensionare il suo impegno a causa dei tagli di bilancio, ma le forze aeree e navali Usa continuano ad essere presenti in tutti gli angoli del mondo come sempre negli ultimi decenni. Barack Obama è più cauto per quanto riguarda l’uso delle truppe sul campo, ma non è diventato di certo un isolazionista. Nel suo secondo mandato avevo visto una tendenza a ridimensionare l’impegno dell’America, ma ora mi pare stia cambiando rotta».