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 2014  aprile 30 Mercoledì calendario

LE TRE SFIDE NEL PACIFICO

Alla Casa Bianca dicono che il futuro delle relazioni trans-pacifiche è un grande accordo commerciale di libero scambio tra gli Stati Uniti e una dozzina di nazioni dell’Asia. Ma il progetto va a rilento, nonostante la missione di Barack Obama in Giappone, Corea del Sud, Malaysia e Filippine conclusa ieri. La delegazione di Washington ha trascorso notti a discutere con i giapponesi, senza smuoverli dalle loro eccezioni. Così, il risultato più concreto del tour presidenziale è stato un ritorno al passato: Manila ha firmato un accordo di cooperazione militare che permette a Marina e Aeronautica americane di tornare a usare basi nelle Filippine più di vent’anni dopo essere state costrette a lasciarle. L’intesa è servita a rassicurare gli alleati filippini che Washington non li lascerà soli di fronte a Pechino e alle sue rivendicazioni territoriali sulle Spratly, centinaia di isole, atolli e scogli sparsi nel Mar cinese meridionale. Il presidente ha citato un trattato del 1951 che lega Washington e Manila in caso di aggressione.
A Tokyo, Obama ha citato le Senkaku, il nome giapponese che individua un altro gruppo di scogli disabitati reclamati dalla Cina sotto il nome di Diaoyu. Anche qui c’è un trattato di difesa da onorare e per gli americani si sono aperti problemi gravi non solo a causa dell’apparente intransigenza di Pechino nella sua pretesa di recuperare isolette perse nel 1895, con la guerra sino-giapponese. L’amministrazione Usa si trova di fronte anche alle ambizioni del premier Shinzo Abe, che vorrebbe chiudere i conti con il passato militarista cambiando la costituzione pacifista, per consentire alle forze armate nipponiche di prendere parte ad «azioni di difesa collettiva all’estero». Nel frattempo Abe ha varato un piano di riarmo da 180 miliardi di euro in cinque anni e ha riaperto ferite storiche andando a rendere omaggio al santuario di Yasukuni, dove tra milioni di caduti del Sol Levante vengono onorati anche diversi generali e politici imperiali condannati come criminali dopo il 1945.
Il generale cinese Luo Yuan, presidente del think tank militare di Pechino, dice che «le probabilità di una guerra tra Cina e Giappone aumentano». Abe e il leader della Repubblica Popolare Xi Jinping non si parlano.
Un altro fronte regionale che divide Usa e Cina è quello coreano, sempre in allarme per la minaccia dell’imprevedibile regime della Nord Corea, che secondo l’intelligence satellitare sta preparando un nuovo test nucleare sotterraneo dopo quello del 2013. L’America è convinta che solo i cinesi (protettori della dinastia di dittatori Kim) possano disinnescare la situazione. Pechino non è certo felice di assistere a esplosioni nucleari a ridosso del suo confine, ma non è neanche disposta ad abbandonare Kim Jong-un al suo destino: la destabilizzazione, o anche la riunificazione sotto la bandiera sudcoreana fanno paura anche alla grande Cina. A complicare le cose per Washington, il fatto che Seul è non meno offesa di Pechino dal revanscismo giapponese.
Per Obama un difficile esercizio di equilibrismo. Ispirato da Hillary Clinton, ha lanciato la strategia «Pivot to Asia» che prevedeva un ridispiegamento di forze nella regione a seguito del disimpegno da Iraq e Afghanistan: a Pechino la formula è stata interpretata come contenimento e accerchiamento. La reazione è stata una nuova politica aggressiva nel Mar cinese. Ora, di fronte alle mosse cinesi sulle rotte vitali del Pacifico, la Casa Bianca promette di onorare i trattati di difesa con gli alleati. Il capo del Pentagono, Chuck Hagel, ha usato un paragone forte: «Pechino non deve prendere come modello l’annessione russa della Crimea». Ci sarebbe da chiedersi se davvero Washington ha fatto abbastanza per la Crimea perché la sua promessa risulti credibile di fronte agli attori del teatro asiatico. La domanda sul precedente di Crimea e Ucraina è stata ripetuta a Obama in tutte le tappe della sua missione in Asia. Tanto che il Pentagono ha dovuto far filtrare i suoi piani dissuasivi, che si spingono fino alla riattivazione della vecchia base aerea di Tinian nelle Marianne, da dove decollò nel 1945 il bombardiere diretto su Hiroshima.
Ma la domanda è politica: può (e vorrebbe) davvero l’America di Barack Obama, che sta cercando di consolidare la ripresa economica, rischiare il rapporto con Pechino per un pugno di scogli nel Mar cinese? Sull’ipotesi di crisi grave con gli Stati Uniti il premier cinese Li Keqiang ha risposto con un sorriso: «Ci sono differenze, ma la storia ci ha insegnato che bisogna consultarsi e rispettarsi. E soprattutto, ci sono 520 miliardi di dollari di interscambio: questi sono interessi comuni che ci rendono complementari».
Per far sprofondare le Borse mondiali oggi basterebbe un piccolo scontro sino-giapponese intorno alle Senkaku, o un’incursione cinese magari contro la «Sierra Madre», vecchia nave arrugginita che i filippini hanno fatto arenare tra le Spratly per segnare la loro sovranità, con a bordo un piccolo avamposto di «uomini perduti». Al summit economico di Davos il giapponese Abe ha ammonito che la situazione in Asia è simile a quelle in Europa nel 1914. Il presidente filippino Benigno Aquino ha paragonato la crisi nel Mar cinese meridionale a quella del 1938, quando inseguendo l’«appeasement» Francia e Inghilterra concessero alla Germania i Sudeti. Pechino e Seul continuano a ricordare la feroce aggressione del Giappone imperiale.
Ripartendo da Manila, Obama non ha trovato formula migliore se non quella di un discorso a militari americani e filippini: anche lui ha ricordato la battaglia spalla a spalla nella Seconda guerra mondiale. Però ha assicurato che gli Stati Uniti vogliono solo garantire il diritto delle nazioni a vivere in pace e sicurezza; «non puntano a contrastare la Cina, non vogliono neanche contenerla». L’agenzia Xinhua da Pechino ha commentato: «Le quattro tappe in Asia di Obama fanno parte di un piano calcolato per ingabbiare la Cina».