Marco Belpoliti, La Stampa 29/4/2014, 29 aprile 2014
VISUAL DESIGN DELLE NOSTRE BRAME
Un biglietto ferroviario, una confezione di piselli surgelati, lo scontrino del bar, un romanzo, il carattere della carta d’identità, il manuale d’istruzioni, l’adesivo sulla mela, la carta geografica, un cartello stradale, una foto di moda, la fotografia del Presidente della Repubblica, la pagella, un Mav da pagare, la pubblicità di Dolce & Gabbana, la schermata della posta elettronica, il logo della banca. Sono tutti esempi di quello che oggi viene chiamato visual design, termine che ha sostituito graphic design e che include tutto ciò che sino a poco tempo fa si chiamava «comunicazione visiva». Riccardo Falcinelli, uno dei grafici italiani più conosciuti (veste i libri della Minimum fax, la collana «Stile libero» Einaudi, le copertine di molti altri editori, e persino un giornale, Pagina 99), ha scritto un libro, Critica portatile al visual design (Einaudi, pp. 319, € 17), per descrivere cosa sia esattamente il visual design e di quali ambiti s’occupa.
L’idea da cui parte l’autore, docente all’Isia di Roma, è che non sia una disciplina, bensì «una serie di discorsi che riguardano ambiti diversi della produzione e della conoscenza». Un campo molto vasto, che contiene oggetti, informazioni, eventi, racconti, aziende e persino persone. Scrive Falcinelli: «Nel visual design la forma non segue la funzione ma l’intenzione». Una definizione perfetta, dal momento che proprio «l’intenzione» è il centro focale del libro, che si trova ad affrontare l’esplosione del visual design, che sta fagocitando tutto, o quasi. Oggi nessun oggetto o manufatto, sia reale o virtuale, si sottrae al «disegno»; ogni cosa è sottoposta, come acutamente afferma l’autore, all’intenzione.
Per farmi capire prendo dal libro un esempio, un oggetto che contiene molte intenzioni, e che noi tutti abbiamo maneggiato, o ci apprestiamo a farlo: il catalogo dell’Ikea. Scrive Falcinelli: il catalogo di questa grande azienda di produzione-distribuzione d’oggetti per la casa opera in modo coordinato con gli oggetti venduti e con lo spazio espositivo dove sono esibiti. Una triplice alleanza: il mobile rimanda alla figura stampata su carta e allo spazio in cui esposto; a sua volta lo spazio espositivo somiglia al layout del catalogo, e il catalogo infine riflette entrambi. In altre parole, il catalogo non è solo un listino, ma insieme una «fiction»: visualizza i mobili e il modo di chi li abita, propone un gusto e un modo di «essere al mondo». Si tratta di un manuale di comportamento, vero e proprio storytelling della vita quotidiana in una casa. «Senza il visual design, quegli oggetti non esisterebbero – precisa Falcinelli –, almeno non come li conosciamo».
La stessa cosa si potrebbe dire per un altro brand di moda: Camper. L’azienda spagnola produce scarpe. Non è esattamente Ikea, sia per il catalogo di minori dimensioni e distribuzione, sia perché le scarpe definiscono molto meno il modo di vivere rispetto all’abitazione. Il campo visual risulta più ristretto, ma non meno legato all’intenzione. Probabilmente anche le scarpe, a differenza di quello che scrive Falcinelli, appartengono al visual design.
Nonostante cerchi di delimitare lo spazio del visual design, questo libro ha un grande merito: mostra come il campo d’azione dei graphic designer (ora visual designer) si sia straordinariamente espanso in questi ultimi due decenni, superando quello tradizionale della grafica, di ciò che era progettato per il supporto cartaceo in genere, sino ad allargarsi all’intero spazio della progettazione, dai marchi aziendali ai visori del tablet, dal packaging alle linee di moda. I visual designer fanno oggi qualcosa di molto più importante che progettare le «cose»: progettano il modo in cui noi vediamo le cose, attualmente l’azione più importante per vendere le merci. Falcinelli scrive nelle prime pagine: «Visual design è dunque la progettazione di tutto ciò che percepiamo con gli occhi, ma in sinestesia con gli altri sensi, e in rapporto all’immaginazione».
Cosa resta fuori da questa definizione? Quasi nulla. Quando l’autore ribadisce che «il visual design progetta anzitutto rappresentazioni», e la rappresentazione è ciò che si mostra sensibilmente al nostro sguardo, e «pure qualcosa che finisce per abitare i nostri pensieri», descrive l’attuale campo progettuale. Le merci, comprese quelle culturali, possiedono un indubbio alone di fascino con cui ci confrontiamo ogni giorno, che si tratti di profumi di Chanel o delle copertine dell’Einaudi. Sono miti, archetipi, se vogliamo dirla con Jung, e si caricano di un «gigantesco valore aggiunto». Un esempio lampante: i quaderni di Moleskine. Cosa sono? Fogli bianchi tenuti insieme da una copertina cartonata nera e da un elastico. Niente di più semplice. Si racconta che erano i quaderni di scrittori famosi: Hemingway, Chatwin. Il loro gigantesco valore aggiunto è mitologico. Funziona per questo, e non è poco.
Nel libro di Falcinelli ci sono molte cose interessanti sulla fotografia, l’iconografia, il layout, il carattere tipografico, e altro ancora; tuttavia la cosa fondamentale che ci fa scoprire il suo saggio-manuale è proprio l’allargamento dell’azione del design, non solo e non tanto quello tradizionale, che progettava e realizzava gli oggetti, bensì quello che li comunica e li distribuisce: il visual. Michel Serres, filosofo e epistemologo francese, aveva capito alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso che la divinità del contemporaneamente non è più il produttivo Prometeo, bensì il distributivo Mercurio: Ermes dio degli scambi, degli incroci, dei commerci, e anche dei ladri. Il suo discepolo diretto è il visual designer, colui che costruisce le rappresentazioni, le mette in azione e le racconta. La grafica sposata al marketing ci cala nel cuore di tenebra del contemporaneo, e lo fa con una sua narrazione. Dalla neotelevisione di Berlusconi alle slide di Renzi, vince il visual design.
Marco Belpoliti, La Stampa 29/4/2014