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 2014  aprile 28 Lunedì calendario

FELICE DI ESSERMI TOLTO DI TORNO CERTI PERSONAGGI

[Intervista a Ivano Fossati] –

Se la curiosità unica è quella di sapere se ci ripenserà, la risposta non concede spazio al dubbio: no. Ivano Fossati non è né triste né pentito. Non sembra essere mai stato più sereno di così. Mai più dischi, mai più concerti. Lo ha promesso e non è tipo da contraddirsi, casomai uomo da smarcamenti. É nella sua casa di Leivi, adagiata sopra Chiavari. Suona ogni giorno, però privatamente. Il pianoforte, le chitarre. Per studio e per diletto. La “piccola bottega di canzoni artigianali” è ancora aperta: due e tre brani l’anno, da donare a chi gli somiglia poco. Il Fossati burbero è sempre stata una mezza verità: lupo solitario, sì, ma a fasi alterne. Per nulla serioso, anzi imitatore insospettabile e dispensatore di aneddoti, che racconta senza sbrodolare in parentesi e rispettando pure lì una partitura sottile. Quella volta che rischiò la vita ad Harlem, quell’altra che conobbe Andy Warhol. E il ricordo di una sbornia monumentale: “A Mola di Bari nel 1971. Con i Delirium, in quei mesi labili di successo clamoroso. Mi stordii di Squinzano, rosso pesantissimo, e mi ritrovai svenuto nel bagno”. I libri di Raffaele La Capria sul comodino, una recensione privata di Stoner (“Bello, ma non così bello come dicono”) e lo stupore lusingato per la stima dei colleghi (“Quando ho rivisto anni fa Claudio Baglioni, mi ha dimostrato di conoscere molte mie canzoni. Temo anzi che le ricordi più di me”). Una bottiglia di Pigato sul tavolo, un pensiero al figlio batterista Claudio (“É felice, suona nei musical francesi”) e gli olivi sullo sfondo: “Io non li so curare. Per fortuna ci sono dei ragazzi albanesi meravigliosi che eccellono naturalmente in lavori che noi abbiamo dimenticato”. Eppure anche lui aveva tentato di reinventarsi contadino: “Sul finire dei Novanta. Avevo un cascinale non distante da Novi Ligure. Fabrizio (De André, NdA) sapeva lavorare la terra. Io proprio no”. Al suo fianco c’è la compagna Mercedes Martini, attrice e insegnante teatrale, conosciuta durante le registrazioni di Macramè. Da alcune settimane, edito da Einaudi, è in libreria Tretrecinque. Il suo primo romanzo. La storia di Vittorio Vicenti, o per meglio dire Vic Vincent. Un chitarrista giramondo: “Distaccato e sveglio, divertente e un po’ cinico. Uno a cui, alla fine, non puoi non volere bene”. Il libro si apre con una epigrafe che fotografa il Fossati attuale, per nulla cerebrale e ostinatamente leggero: “Musica pop è l’arte di suonare all’infinito cose che altri hanno fatto prima di te, ma con l’aria di inventarle al momento. Per questo si chiama pop, perché è democratica. Chiunque può metterci le mani, qualsiasi idiota ci può riuscire. Il fatto è che può trascinarti lontano”. Artista aduso a dare “aria a queste stanze” al punto da mutarne drasticamente architettura e scenari, Ivano Fossati è sempre stato un cantautore atipico e suo malgrado: prima la musica, poi – molto poi – i testi.
Nel 1991 avevi scritto Il Giullare. Un racconto piccolo piccolo, eppure te ne eri quasi scusato. Sottolineando che il musicista non deve fare anche lo scrittore.
“Sapevo che, scrivendo Tretrecinque, mi sarei contraddetto. Einaudi mi ha chiesto di provarci. Ho cominciato controvoglia. Doveva essere 200 pagine, è divenuto più del doppio. Evidentemente lo avevo dentro da tempo. E poi adesso la situazione è diversa”.
Non canti più.
Non esercitando più il mestiere di “cantautore”, potevo scrivere il libro. Nessun doppio lavoro e nessuna pretesa di donare un capolavoro. Alla mia età lo capisci quando una canzone o un libro si reggono in piedi. Lo sai se sono decenti o fanno davvero schifo. L’obiettivo era quello: non farsi male, non naufragare. Scrivere un libro dignitoso.
Quanto tempo ha richiesto?
Otto mesi di stesura, tanti viaggi in Inghilterra e Stati Uniti per rispolverare luoghi e strade su cui ambientare parte del romanzo. E quattro mesi di ripulitura. Sin troppo meticolosa. Quando ho telefonato a Einaudi per la millesima volta e ho chiesto di spostare una virgola, mi hanno detto garbatamente: ‘Forse è il caso di chiudere il libro, signor Fossati’. Avevano ragione.
Chi è Vic Vincent?
Un insieme di personaggi incontrati. Alcuni miei parenti suonavano nelle navi. C’era poi un batterista inglese: veniva dalla Cornovaglia, era con me nel ’73. Fu il primo a parlarmi di queste orchestre itineranti che si esibivano negli alberghi di tutto il mondo.
Le presentazioni del libro ti divertono?
Incontrare le persone sì: non è da loro che mi sono allontanato. Invece il rito della presentazione mi ha già stancato. Chi entra in classifica arriva a farne 200 all’anno, io fatico a raggiungere la decina. L’editoria è davvero in crisi, per vendere devi essere il piazzista di te stesso e non è il mio mondo.
La musica lo è.
La musica c’è come prima e nulla è cambiato. Ho solo deciso di non suonare né cantare più pubblicamente. Né dischi, né concerti. Mai più.
“Solo”? Non è un cambiamento trascurabile.
Ho fatto la scelta giusta, né un anno prima né un anno dopo. Se mi chiedi se ci ho ripensato, ti rispondo di no. Fin da quando avevo 20 anni, la cosa che più ho amato è stata costruire un disco: stare davanti al mixer e in sala di registrazione. Anche tutto il giorno. Mi sono sempre trovato meglio con i musicisti che con i colleghi.
E i live?
L’ultimo tour è stato divertente, c’era aria di festa e nessuna malinconia. Spero negli anni di avere imparato il mestiere, ma non sono Gaber: degli spettacoli non ho mai avuto il mito. Non mi mancano i dischi, non mi mancano i live, non mi mancano le promozioni. La discografia è morta. E sono davvero felice di essermi tolto di torno certi personaggi.
Ci sarà stato, almeno, un periodo lieto.
Un lungo periodo: quello che va da Pensiero Stupendo a Discanto, quando il mio lavoro mi ha trascinato in tutto il mondo. Dodici anni di scoperte e di meraviglia, in cui la mia vita ha somigliato un po’ a quella di Vic Vincent.
Discanto è del 1990. E dopo?
Dopo tutto ha cominciato a farsi terribilmente serio.
Però scrivi ancora.
Due-tre canzoni l’anno. Ho più richieste di prima. Rifiuto le proposte di chi vorrebbe che riproponessi i bolsi stilemi cantautorali. Accetto invece le richieste “poppissime”. Noemi e Mengoni, gli artisti migliori usciti dai talent. Pausini. Giorgia. E altri che farebbero inorridire i puristi: per loro la bottega è sempre aperta. Scrivo anzitutto per chi è lontano da me.
La sensazione è che tu voglia quasi punirti del periodo più cerebrale, quello che ti attirò le critiche di Edmondo Berselli.
Un po’ come fai con “La mia banda suona il rock”: più ti chiedono l’autorizzazione per cover tremebonde e più accetti.
Giusto per fare ancora più male a una canzone che detesti.
Tra i Settanta e gli Ottanta abbiamo vissuto un’anomalia: una terribile tendenza museale. Preferisco il pop. Quell’idea anomala di cantautorato è morta. Se mi arriva una musica di un ventenne che prova a sembrare Conte e De Andrè, mi rattristo. Non è una cosa sana.
Il pop è vivo?
Il pop è un limbo del divertimento: un limbo vivissimo in cui amo cullarmi, pieno di obbrobri assoluti ma anche di talenti autentici. Mi diverte seguire anche la musica brutta molto pop. Per esempio Lady Gaga, soprattutto quando suona da sola al piano: lì ti rendi conto che, tecnicamente, è bravissima.
Gaber ti accusava bonariamente di essere bravissimo, ma di scrivere testi così criptici che arrivavi alla fine e non avevi capito nulla di quello che volevi dire.
“(sorride) Non aveva tutti i torti. Paragonati alle parole durissime sue e di Sandro Luporini, i miei erano testi decisamente enigmatici. Gaber mi cercò per produrre gli ultimi dischi. Ero impegnato ne La disciplina della terra e Not one word, così gli suggerii di affidarsi alle mani di Beppe Quirici. Ottime mani.
Quirici se n’è andato. Come Carlo Mazzacurati.
Con Carlo è sempre andato tutto bene. Era una persona divertente e meravigliosa: lo volevi vicino di casa, perché ti faceva stare bene. Scrissi tutti i temi de Il Toro prima che lui girasse anche solo una scena. Usai la sceneggiatura come fosse una partitura da mettere sopra il pianoforte. Poi Carlo mi fece vedere il film e non cambiammo una nota. Il Toro ha vinto tanti premi, ma né quella pellicola né tutta la sua opera sono state ancora sufficientemente apprezzate. Sapevo che era malato, ma non sei mai pronto a certe notizie.
Sei stato uno dei primi ad apprezzare Paolo Sorrentino.
Mi colpì Le conseguenze dell’amore e ne scrissi su Repubblica. Lo preferisco quando fa film piccoli, rispetto a progetti forse troppo ambiziosi come This Must Be The Place e La Grande Bellezza.
Hai visto Quando c’era Berlinguer?
Non ancora. Conosco Veltroni, ne ho stima. Mi ha chiesto di usare C’è tempo per la scena dei funerali di Berlinguer, ma ho dovuto dire di no. Non ce la facevo a legare quel brano, e in generale qualsiasi mio brano, a un momento così triste. Non avrei resistito a tanto dolore.
Avevi promesso agli amici che, dopo il ritiro, avresti abbandonato l’Italia.
Lo confermo. Non ho più nessun motivo per stare qua. Potrei vivere a Guadalupe o ai Caraibi. Se resto in Italia, è perché ho una compagna più giovane che giustamente vuole realizzarsi nel suo paese. Ho una casa a Nizza dove vado appena posso, anche da solo. Nizza ha la capacità straordinaria di girarsi di spalle: non gliene frega niente dell’Italia, di Sanremo, dei canali Rai.
Però anche la Francia ha i suoi miti cantautorali.
Sì, ma li ricordano senza retorica e sacralità museale. Quando parlano di Brel, Brassens e Gainsbourg, è come se per loro fossero ancora lì. Persone vive, non mausolei.
E la politica? La militanza, la partecipazione?
Ho vissuto tutte quelle fasi, fino alla contrapposizione brutale e poi il riflusso. La non appartenenza. Oggi, quando vedo Renzi, ho la sensazione di uno che smanetta sulle manipole della radio e non si sintonizza mai. Non mi arriva niente di lui. È sbiadito, mi pare uno che promette persino più di Berlusconi. Con Renzi fatichi ad avere una posizione chiara perché parla molto, ma a stare attenti scopri che dice pochissimo.
Dopo il V-Day affermasti che, se all’Ulivo avevi prestato La canzone popolare per poi pentirtene un po’, a Grillo avresti addirittura potuto regalare un’opera intera.
Credo che Grillo, nel febbraio scorso, si sia trovato davanti una responsabilità enorme e per un po’ neanche lui abbia saputo cosa fare. Però sul Movimento 5 Stelle una cosa voglio dirla: è l’unica grande e autentica novità della politica italiana che ho visto in cinquant’anni.
Affermazione impegnativa.
Da cui ne conseguono altre due. La prima è che questa novità è benefica in sé. La seconda è che il M5S fa bene a non accettare nessun accordo. Questo è positivo e fa sì che io sia solidale con loro: che abbia un atteggiamento benevolo. Non vuol dire che la pensi sempre come loro. Sull’euro sono totalmente in disaccordo e ogni tanto fanno sciocchezze tremende. Non so dove porterà la loro intransigenza e fermezza, ma so che è positiva e che mi piacciono.
Gli altri?
Gli altri politici sono vecchi. Vecchissimi. Parlano di “sviluppo” e “cittadino protagonista”, usano terminologie sepolte. È gente che ancora fissa la telecamera mentre parla. Hanno letto manuali di comunicazione vecchi di trent’anni.
Per curiosità. Oggi com’è la tua giornata tipo?
Suono, tutti i giorni. Sto con Merci. Leggo molto. Viaggio. Ecco: mi prendo il mio tempo.

Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 28/4/2014