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 2014  aprile 28 Lunedì calendario

LA NUOVA ENI DI DESCALZI E RENZI QUATTRO SFIDE PER IL CAMBIAMENTO


È stato capo dell’Eni per nove anni, Paolo Scaroni, lo sarà per altri nove giorni. Con i suoi tre mandati ha eguagliato - meno quattro mesi - la longevità del fondatore Enrico Mattei. Non si fosse imposto al governo Matteo Renzi, probabilmente avrebbe ottenuto un quarto rinnovo. La storia è andata diversamente: almeno nella forma Renzi ha fatto ciò che aveva promesso, cambiando le facce di tutti i capiazienda delle partecipate statali. Per il gruppo dell’Eur - senza dubbio l’azienda più importante del paese e per il paese - il cambiamento in corso non dimentica una certa salvaguardia della continuità: strategica, di cultura aziendale, di rapporti con gli investitori e i clienti (tra cui figurano varie nazioni strategiche sullo scacchiere globale). D’altro verso, la situazione politica italiana e l’esito della vivace contesa per le nomine pubbliche mostrano che un sistema di potere è al tramonto. Si può chiamarlo, senza sbagliarsi molto, il sistema Berlusconi-Letta-Bisignani, che nei rapporti tra il Palazzo e le partecipate statali, Eni in testa, ha dato la linea per un decennio. L’8 maggio però l’assemblea della compagnia indicherà come ad Claudio Descalzi, 59 anni di cui 33 passati in azienda, alter ego operativo di Scaroni da almeno sei anni quale capo dell’unità Esplorazione e produzione, da cui provengono quasi tutti i 5,2 miliardi dell’utile 2013 (anche perché Eni opera in perdita negli altri suoi mestieri: gas e generazione di energia, chimica, raffinerie e distribuzione). Descalzi d’ora in poi dovrà fare da solo, anzi dovrà fare con Renzi, il che sancisce anche un cambio importante dei riporti istituzionali tra l’azienda dell’energia e la Cassa depositi che la controlla, per conto del Tesoro. Diversificazione geopolitica, contratti di fornitura gas, ristrutturazione di raffinerie e chimica, assetto manageriale sono le quattro sfide su cui Claudio Descalzi è chiamato a risolvere appieno l’Edipo professionale (per metà compiuto nel 2008 emancipandosi dal superiore Stefano Cao, ex dg, a marzo vociferato tra i candidati a rientrare nel ruolo di ad). Le più insidiose sono quelle ad alta densità politica e geopolitica, e potrebbero essere i test di maturità per un manager finora più concentrato sull’industria e il mercato, mentre Scaroni presidiava i network e le istituzioni. Scaroni e Descalzi non erano una coppia scontata, tanto più che l’insediamento del successore di Mincato coincise con l’uscita (per cause non solo anagrafiche) di quasi tutti i manager della prima linea di San Donato. Ma il duo manageriale ha saputo convivere, e nel tempo plasmare Eni con i connotati odierni, i punti di forza e di debolezza. Tra i primi, una remunerazione elevata agli azionisti, la solidità patrimoniale e il rilancio delle attività estrattive, su cui il focus è più chiaro dopo la cessione di Snam e Galp. Tra i secondi, la performance del titolo, la produzione declinante e un focus sulle direttrici russe e nordafricane da ripensare, anche data l’evoluzione geopolitica. La quasi guerra tra Russia e Ucraina e la crisi dei rapporti tra Mosca e l’Ue amplifica i rischi operativi dell’Eni in Russia e nel Caspio, dove restano cospicui interessi. E l’instabilità endemica del Nord Africa, specie nell’irrisolta transizione della Libia post Gheddafi, suggerisce di accelerare la diversificazione del business da un’area in cui gli italiani sono leader da decenni. Sul fronte russo il riassetto è già iniziato, con l’uscita dopo 17 anni dell’ambasciatore aziendale Ernesto Ferlenghi. Resterà come consulente, e a Mosca Eni rinuncerà al rango semidiplomatico chiamato accreditazia, chiesto e ottenuto da Mattei mezzo secolo fa. Difficile non collocare la scelta nell’alveo di un riposizionamento geopolitico, che allenti i vincoli spessi con Gazprom e i russi. Su questa china passa la revisione dei contratti di fornitura a lungo termine del gas, a prezzi che la rivoluzione del gas da rocce (shale) ha messo fuori mercato e nel 2013 hanno portato la divisione Gas & Power a perdere 662 milioni, dopo 4 miliardi di “sconti” e 1,9 miliardi per gas non ritirato perché invendibile. Altro test sarà la realizzazione del South Stream, gasdotto da una ventina di miliardi molto voluto dai russi per aggirare l’Ucraina nel transito verso Ovest. Nel progetto quel tubo parte dalla Russia, attraversa il Mar Nero e sfocia in Bulgaria, anche se attualmente l’Europa pare non sognarsi nemmeno di concedere i permessi di attracco. «Il futuro di South Stream si è fatto fosco», ha detto Scaroni di recente. Fosco, ma anche nelle mani di Putin: che potrebbe deviare il condotto verso la Turchia, o posare i tubi sottomarini senza permesso di attracco, in segno di ossequio ai moniti di Bruxelles. Eni ha ancora un 20% del consorzio South Stream, e la controllata Saipem è il primo contrattista dei lavori. Sciogliere questi nodi è materia da statisti più che da manager: oltretutto a Palazzo Chigi non c’è più chi per anni ha avuto una linea rossa con il Cremlino. Restando nei dintorni, geografici e geopolitici, va risolta la grana di Kashagan, giacimento sempre più in ritardo nell’entrata a regime. A giugno si saprà la natura del guasto ai tubi, corrosi dalle perdite di gas acido e velenoso che mette a rischio uomini e ambiente nel Caspio. Nella migliore delle ipotesi è produzione rinviata, nella peggiore multe e problemi con Nazarbaev e le major del consorzio dove Eni ha il 16,8%. Più operativa, ma sempre ad alto tasso strategico, è la rinegoziazione dei contratti con Gazprom, da cui arriva un terzo del gas italiano. La trattativa si aprirà entro l’anno, in un contesto non favorevole. Scaroni ha più volte cercato di socializzare le perdite legate a quelle forniture, con l’argomento che la certezza degli approvvigionamencon ti è un tema nazionale, non dell’Eni. Finora l’arena politica non gli ha dato ascolto, e neanche ai suoi appelli a che Bruxelles introduca nel proprio campo cognitivo lo shale gas, come alternativa ai tubi rigidi. Tubi peraltro caratteristici per l’Eni, che in questa congiuntura di debole domanda e prezzo crollato è penalizzata anche in Algeria, dove Sonatrach tra poco va imbastita un’altra trattativa in cerca di sconti. L’obiettivo è «allineare i contratti gas alle condizioni di mercato entro il 1° gennaio 2016». Eni si ripromette in pratica di trattare a oltranza con i fornitori per migliorare le condizioni di ritiro. Non sarà facile: il divario tra prezzi dei contratti e prezzi hub è quasi del 30%, e gli sconti finora sono stati nell’intorno del 5%. Proprio dal Nord Africa, fiore all’occhiello di Mattei e del primo Scaroni, stanno venendo altre grane. In Algeria è in corso un caso giudiziario e commerciale (indagini aperte a Milano e Algeri, e due arbitrati in corso con Sonatrach) sui lavori della controllata Saipem, cui l’azionista Descalzi dovrà trovare un futuro strategico, dentro o fuori Eni. Le turbolenze in Libia e in Nigeria, poi, da mesi costringono i locali impianti a soste continue che deprimono la produzione. Detto che l’industria del petrolio ha cicli tra i più lunghi, da qualche tempo Eni cerca di decentrare prospezioni e acquisizioni, specie nel più tranquillo Sud Est asiatico (Indonesia, Vietnam, Myanmar), o nell’Africa Orientale. Qui ha sede il giacimento Mamba, fiore all’occhiello del nuovo corso E&p. Eni ha in rampa di vendita un altro 15% del consorzio operatore, per ampliare la platea di investitori (costruire i treni Gnl mozambicani costerà decine di miliardi) e incassare altri 4 miliardi, di cui circa 2,5 di plusvalenza. La cessione, curata da Bofa Merrill Lynch, sarà un altro modo per mandare più rapidamente le scoperte (da 9,5 miliardi di barili in sei anni) in produzione (1,62 milioni di barili al giorno, -4,8% sul 2012): e questo è il compito primario del nuovo ad sulle “sue” attività. Ha alto gradiente politico - con puntate sull’ordine pubblico - anche la ristrutturazione delle raffinerie, che perdono miliardi e affossano i ridotti margini della rete distributori nella divisione R&m. Finora chiudere raffinerie in Italia, o riconvertirle, s’è rivelata impresa lunga e ardua. L’azienda mira a nuovi tagli, efficienze, ricerca di nicchie «più protette». Ma deve fare i conti con il governo, e attende di misurarsi con Renzi e i suoi. È un vasto programma, per Descalzi. E non basterà, a compierlo con successo, la fama di gran lavoratore e il rispetto di cui gode in azienda, con qualche riserva perché i più ortodossi difensori della cultura Eni gli imputano qualche connivenza di troppo con Scaroni. Pare un po’ un revival della storica diatriba tra gli “operativi” (in passato sotto la bandiera Agip) e i “politici” con la casacca della holding Eni. Negli anni di Scaroni la holding ha prevalso, per mezzo di dirigenti di sua scelta come il direttore operativo (Coo) Sardo, i capi della security (Saccone), relazioni esterne (Lucchini), affari istituzionali (Bellodi), midstream (Alverà), che coordina trading, fornitura e ottimizzazione del portafoglio oil & gas, vendite all’ingrosso, commercio e trasporto Gnl. Anche dal condominio tra Descalzi, la presidente Emma Marcegaglia e gli scaroniani si misurerà la quota di rinnovamento o di continuità avviata dal nuovo azionista Renzi. L’Eni è oggi il sesto gruppo petrolifero mondiale Qui sopra, i contratti di Eni per la fornitura del gas 1 2 Qui sopra, Emma Marcegaglia (1), nuovo pres. Eni e Franco Bassanini (2), pres. Cdp.

Andrea Greco, la Repubblica – Affari & Finanza 28/4/2014