Camilla Tagliabue, Il Sole 24 Ore 27/4/2014, 27 aprile 2014
NON STRAPPIAMOCI I CAPPELLI
Tanto di cappello a chi ha ideato e realizzato la «prima mostra monografica dedicata al cappello», in corso a Firenze alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti che, per l’occasione, «ha aperto le porte a un accessorio destinato a non passare inosservato», chiosa la direttrice Caterina Chiarelli. L’opulenta collezione di copricapi, già patrimonio del museo, «ammonta a oltre mille unità, custodite solitamente nel deposito e di cui soltanto una parte è ora destinata all’esposizione». Il cappello tra arte e stravaganza, questo il titolo, «non segue un percorso cronologico o stilistico, bensì una bizzarra suddivisione per colori, impostazioni scultoree e ornamenti»: la mostra, insomma, è allestita e strutturata come fosse «un atelier dell’artista-modista».
Promossa dal Mibact, dalla Regione, dalla Soprintendenza e dai Musei fiorentini, la rassegna vanta pure il contributo del consorzio cittadino «Il Cappello», le cui aziende espongono qui le proprie originali creazioni, nel solco dell’antica lavorazione artigianale e accanto ai modelli di firme note e blasonate, tra cui Givenchy, Yves Saint Laurent, Prada, Ferré… Spiega il presidente dell’associazione Giuseppe Grevi: «In quest’aerea, tra Firenze, Signa e Campi Bisenzio fin dalla fine del Settecento è nata la lavorazione dei cappelli che ha contribuito in modo decisivo alla industrializzazione della Toscana». Tra passato e presente, dall’Ottocento al Terzo millennio, tra storia ed estetica ma soprattutto tra moda e arte, questo è un excursus curioso ed elegante sul «cappello mutevole e soggettivo, il cappello "opera d’arte"», dice la soprintendente Cristina Acidini. Ecco allora sfilare i baschi vintage, le cuffie in pizzo, le tocque e i bicorni, i cappelli-acconciatura e le corone, le velette e i copri-chignon; e poi, pagliette, panama, piume e occhiali da sole giganteschi, a mo’ di visiera futuristica…
Anche il catalogo è ricco e raffinato, corredato dalle schede scientifiche di Simona Fulceri, dai testi di Katia Sanchioni, che ricorda i fecondi intrecci tra scultura, pittura, design e modisteria, e da una riflessione filosofica di Nicola Squicciarino sul «capo da s/coprire».
Aurora Fiorentini stende, inoltre, una «piccola antologia di forme e stili del Novecento»: «Il primo decennio del XX secolo è stato definito a buon diritto il periodo dei "beaux jours du grand chapeau"». Solo dopo la Grande guerra, e l’altrettanto Grande depressione, si scoprono gli austeri caschi e cloches per donne androgine e «alla maschietta»; seguono i conturbanti turbanti delle dive di Hollywood, dai cappellini minimal di Audrey Hepburn alle stravaganti mascherine con orecchie da Minnie, indossate da Madonna e Lady Gaga, fino alle eccentriche pagode di Dior e Chanel e alla fortunata stagione dei cappellai italiani, che negli anni Cinquanta dettavano linee, forme e fogge in tutto il mondo.
Eppure i maestri modisti non hanno sempre goduto di ottima fama: nell’Inghilterra vittoriana nacque addirittura l’adagio «matto come un cappellaio» perché si riteneva che le sostanze tossiche inalate durante la lavorazione dei tessuti intaccassero la salute mentale degli artigiani, con buona pace del Cappellaio Matto di Lewis Carroll. Con piglio ironico, Dora Liscia Bemporad racconta allora le «follie per la testa: decorazioni, piumaggi e ornamenti», moda mutuata da un’antica usanza religiosa dei pellegrini sulla via per Santiago de Compostela: «Le "insegne" da cappello inizialmente erano conchiglie raccolte sulla spiagge dell’oceano, cucite sulle falde per dimostrare di aver compiuto il pellegrinaggio». Invece, per non fare appassire i fiori freschi appuntati sulle tese di paglia, si ricorreva «all’espediente di nascondere nelle parrucche e nei cappelli fiale ricolme d’acqua». Dopotutto, sosteneva Marlene Dietrich, «i cappelli sono un gran divertimento e mettono di buonumore. Chi ne sorride non capisce proprio nulla della capacità di sopravvivenza delle donne».
Camilla Tagliabue, Il Sole 24 Ore 27/4/2014