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 2014  aprile 27 Domenica calendario

“LA VERA PATERNITÀ DI BLOB? L’INVIDIA FA VIVERE MALE...”

[Intervista a Enrico Ghezzi] –

Con la stessa distanza “anacronistica tra il dire e il detto” che gli imputava Aldo Grasso, per Enrico Ghezzi diventa voce fuori sincrono e manifesto esistenziale anche l’appuntamento. Tra sms che somigliano a rinunzie: “Quando si era detto come ultima ora buona domani pomeriggio per vederci?” e comunicazioni incerte come una previsione di Bernacca: “Saltata una coincidenza acquea per maltempo, trovato ora posti in Frecciarossa senza posto, arrivo alla stazione all’una e dieci”, il rendez-vous con il critico è un fortunato incrocio cromatico al binario nove e tre quarti. Roma è tutta un bianco e nero di tonache, pellegrini e canoni estetici da rispettare in vista della santificazione di Karol Wojtyla e anche Ghezzi, grazie a dio, non deroga alla regola. Lo riconosci tra i pretini che scendono dal regionale che arranca da Latina. Indossa una giacca di velluto fuori stagione e porta a tracolla borse gonfie di giornali e figli occhialuti che a dispetto del nome da combattenti, Adelchi, duellano ad armi pari con una lattina di aranciata. Ghezzi preferisce il chinotto: “In Liguria ho ritrovato anche il Lurisia”, ricorda l’epoca in cui ci si poteva perdere tra spume meno procellose delle schegge televisive e siede al tavolo di un ristorante di ascendenza messinese in cui ignorando gli anatemi semantici di Nanni Moretti: “Le parole sono importanti”, in un empito suggeritorio, definisce “curiose” persino le braciole sul menu. Sul piatto, 25 anni di Blob. La celebrazione che mentre esalta, ricorda, rimpiange e quindi seppellisce. Lo inventarono due antichi amici che agitavano le notte universitarie genovesi. Con Ghezzi, c’era Marco Giusti. I due non si parlano dal ’96. Ghezzi scrisse lettere che Giusti conservò, considerandole violente scene da un matrimonio andato a male. “Sono felice che non le abbia buttate” dice Ghezzi, sostenendo di non voler parlare di contenuto e primogeniture su un programma arrivato al quarto di secolo. I venticinque anni di Blob sono un vaso di Pandora che frantuma appartenenze e identità. Nelle schegge dell’archeotelevisione non c’è memoria condivisa anche se, giura Ghezzi: “Non è vero che i miei amici, come insinua Giusti evocando una sorta di maledizione, si siano allontanati inesorabilmente da me”.
Sul tema il critico cinematografico di Manifesto e Dagospia non dubita.
Sto cercando di capire a chi si riferisca, ma non trovo nomi, volti e spalle girate al mio passaggio. L’amicizia è importante. È un valore meno fragile dell’amore perché non ha bisogno di continue conferme né di consuetudini. Se si rompe, significa che non esisteva neanche prima.
Giusti dice anche altro. Sostiene che lei abbia montato pochissime puntate di Blob e che la sua parabola dimostri una sconfortante mancanza di creatività.
Detto che trovo creatività una definizione orrenda, non ho mai pensato a Blob in questi termini. Non è mai stato importante chi facesse cosa. In quelle stanze non poteva non venirti in mente che stavi lavorando a un’idea rubata da altri. A una rielaborazione stratificata in cui l’invenzione era trapassata da milioni di teste, impulsi, suggestioni.
Quindi non ci dirà se Blob era veramente suo o di altri?
La questione, la paternità di Blob, mi genera una certa tristezza vagamente retrò. La condizione di vita più tremenda è l’invidia. Si vive male. Poi in televisione non si inventa nulla. È una legge. Non esiste mai una prima volta in tv.
Lei pensa di aver inventato qualcosa?
La Tv è una grande enciclopedia in cui puoi trovare di tutto. L’alto e il basso. Lo sprofondo e il sublime. Un’arca massacrante in cui ti puoi anche divertire a patto di essere dotato di cinismo estremo. In tv l’unico modo di essere estrosi è aiutare quelli provvisti di talento a tirarlo fuori. Altro non c’è.
Se non ha inventato nulla, ma c’è chi le riconosce un piedistallo da Archimede, come definirebbe il suo percorso?
Mi hanno chiesto di autodefinirmi e ho coniato una formula, magari banale, nella quale mi ritrovo.
Ce la dice?
Ri-autore. Uno capace di giocare con l’archivio, ridargli forma, linfa, nuova vita. La tv per me ha rappresentato un gioco che è durato tantissimo. Forse troppo. Ma in assoluto non credo di aver fatto nulla di speciale. In televisione, come al cinema, siamo tutti spettatori. La colpa non è quella. È fingere di non esserlo. Nei corridoi della Rai è pieno di persone simpatiche che si travestono da demiurghi. Autori senza i quali uno speciale sulla canzone napoletana o sulla Lanterna di Genova, per loro stessa pretesa, non si potrebbero neanche immaginare. Quante volte ho sentito dire: “Questo posso farlo solo io”.
E non è vero?
Neanche un po’. Ma intendiamoci, non cerco scuse, io sono anche peggio.
Per Aldo Grasso, lei e Marzullo eravate i “Gemelli diversi” della tv italiana: “Così dissimili nella forma, ma così identici nella sostanza. Non si capisce mai cosa dicano”.
Me lo ricordo, ma le dico la verità, non mi sono mai arrabbiato. Non ho mai reagito. A Grasso, forse, ho spedito due laconiche righe molti anni fa.
Il critico del Corriere le addebitava anche un certo ego: “Ha un narcisismo senza inibizioni”.
Ammetto la vanità. Non nego di essere molto narcisistico e vano. Un peccato capitale che dovrebbe essere riconosciuto da tutti, anche da chi si guarda allo specchio e dice che è accaduto per caso. Non c’è mai il caso. C’è il volersi vedere che è sempre un’altra cosa.
Ammettere la vanità è una forma di snobismo?
Non direi. La vanità è la vanità. Nello snobismo non mi applico.
Con Blob avete giocato pesante. Politica. Contaminazioni. Guerra. Risse finte. Schiaffi veri. Sull’alterco D’Agostino-Sgarbi ballaste per settimane.
La scena dava, come nessuna, il tono di un’epoca televisiva, ma paradossalmente non era così intensa. Di intenso c’erano solo il momento acquatico e la reazione.
Sul trespolo, alle spalle di Giuliano Ferrara, Corrado Guzzanti recitava da finto Sgarbi. Il programma si intitolava L’istruttoria.
Corrado è un genio senza pari. Imitò fedelmente e a lungo anche me. Mi divertii moltissimo. A me L’istruttoria piaceva. Anzi, mi piaceva Ferrara. E anche se lo conosco superficialmente, mi piace ancora. Ha esibito la sua intelligenza in maniera evidente. Ha rischiato più di tanti altri. Non ha avuto paura di dimostrarsi instabile. Qualcuno dice che si sia venduto. Se è vero, si è venduto con gusto e passione per la teatralità.
C’era teatro anche nel dietro le quinte di Blob?
Il teatro dell’assurdo. Era molto più ampia la quota di chi invece di temere la gogna, voleva apparire a ogni costo. Telefonavano in tanti per autosegnalarsi: “Avete visto quella gaffe che ho fatto l’altroieri?”. I conduttori, viziati, avevano preso a celiare in diretta: “Adesso finiremo su Blob”. Per qualche tempo il microcosmo televisivo covò un sottocodice che si riferiva a Blob e soltanto a Blob. Il pubblico ci proiettava addosso un’onnipotenza assoluta, ci avvertiva come un’emanazione orwelliana, pensava che controllassimo ogni singolo secondo di televisione e quando scopriva che così non era, ci rimaneva male: “Ma quindi voi non vedete proprio tutto tutto?”.
Alcune persone non concessero il diritto d’immagine.
Adriano Celentano, Nanni Moretti, De Gregori, Benigni e naturalmente il Papa, più per un eccesso di realismo che per una vera e propria richiesta esplicita dal Vaticano. I confini del lecito erano necessariamente incerti. La mano di Wojtyla che trema con l’ostia tra le dita era più di un’immagine. Era un segno culturale. Qualcosa che a livello inconscio si agitava dentro ognuno di noi, ben prima che apparisse in tv. Comunque, forse lo canonizzeremo anche noi, il vecchio Papa. Prepariamo una puntata di Blob difficilissima, forse in diretta, per il 6 giugno.
Lei è in Rai da 35 anni.
Vinsi il concorso per programmista regista, l’ultimo vero concorsone a sfondo regionale della Rai, nel ’78, a Genova. Oreste De Fornari mi segnalò un bando su una rivista. Mancavano due giorni alla chiusura delle iscrizioni. Mi tuffai nell’ipotesi. Superai lo scritto e poi l’orale. Un mezzo miracolo.
Ricordi genovesi?
Era una città in cui l’idea dello scontro duro e della radicalità era nell’aria ogni giorno. Un luogo in cui l’attacco al cuore dello Stato godeva di inattese simpatie. Poi rapirono Moro e cambiò tutto. Uno dei tre temi proposti allo scritto del concorso Rai, non a caso, chiedeva al candidato di raccontare come avrebbe affrontato, raccontato e filmato un eclatante fatto di cronaca che prevedesse il decesso improvviso di un importante uomo politico.
Se pensa al miglior film su quegli anni immagina il Bellocchio impegnato sulla figura di Aldo Moro?
No, al Bertolucci di La tragedia di un uomo ridicolo. Anche lì c’è un sequestro, ma a differenza di Buongiorno notte, titolo magnifico, il film di Bernardo era un capolavoro. Bellocchio è uno straordinario regista istintivo, ma tra sceneggiatura e realizzazione, purtroppo, a volte risulta un po’ programmatico.
La politica l’ha sempre interessata. Qualcuno le rimprovera un libro scritto su Massimo D’Alema con il consenso di Massimo D’Alema.
Si intitolava Parole a vista e a distanza di 15 anni, non c’è una sola pagina che rinneghi o di cui mi vergogni. Fu un’operazione coraggiosa.
Ghezzi sale sul cavallo di D’Alema, dissero.
Me lo ricordo. L’ipotesi che fossi salito sul carro di D’Alema, all’inizio, mi fece sorridere. Poi a un tratto non mi divertì più. Non sono mai salito sul carro di nessuno in vita mia né di D’Alema, né tantomeno, come pure scrissero, di Elisabetta Sgarbi. Non so cosa significhi. Non ne sarei capace. All’epoca di Parole a vista di tanto in tanto incontravo un toscano o un sardo che senza aver letto il libro mi accusavano delle peggiori nefandezze: “Ti sei messo al rimorchio del potere”, “reggi il microfono del sovrano”, cose così. Era assurdo. Di D’Alema ero stato sempre fiero antagonista. Aveva tre anni in più e aveva studiato nel mio stesso Liceo di Genova, al Do-ria. Non era un personaggio da Blob, tutt’altro. Però l’altezzosità retorica e un certo sagace dispendio di intelligenza che poi, va detto, non ha lasciato traccia, mi incuriosiva.
Renzi la incuriosisce? Riuscirà a scardinare un sistema già invecchiato in maniera irreversibile nell’immaginario collettivo?
In un certo senso l’ha già fatto e non poteva fare molto di più. Non era affatto scontato né automatico che ce la facesse ad arrivare al governo e infatti, osservandolo, riprende pigolo la mania dietrologica degli italiani: “Se è lì, così giovane, l’avrà senz’altro voluto qualcuno che non sappiamo chi sia”.
E lei si accoda?
No. E quando tende la mano a Berlusconi senza ricevere la pubblica fucilazione che toccò proprio a D’Alema, io mi do una spiegazione semplice. Nessuno, a parte se medesimo, considera Renzi un uomo di sinistra. L’idea dell’Italia bipartitica, dei due moloch fotocopia che sventolando un’ideologia distante oscillano dell’un per cento, tengono in scacco il Paese e provano a superarsi di elezione in elezione è tramontata per sempre. In realtà l’aspetto più interessante di Renzi è anche il più inesplorato.
In cosa consiste?
Nell’essere, più di chiunque altro sia apparso finora sulla scena, il rappresentante di una sinistra vecchia. Di un associazionismo che viene da lontano. Di un afrore tipico del mondo Scout. Ero all’Agesci. So di cosa parlo.
Veltroni ha scelto di portare Berlinguer al cinema.
Il film l’ho visto a pezzi e un giudizio non so darlo, ma lavorare sul Berlinguer televisivo è un’idea interessante. L’ex segretario del Pci è stato il più grande retore dell’Italia repubblicana. In ogni sua formula, da austerità progressista a compromesso storico fino a euro comunismo, splendeva un ossimoro. L’avanzare e il retrocedere in uno slogan solo.
Lei salta da un argomento all’altro. Seguire i suoi passi in una conversazione è complicato.
Non si può che divagare. Mi sarebbe piaciuto farlo anche con Fellini. Mi telefonava: “Ma perché non ci vediamo più spesso? Sei un personaggio così strano, mi piacerebbe parlarti, potremmo fare un Petrolini insieme, ti vedo nelle vesti di Pallido Prence”.
E lei che rispondeva?
“Dipende da te, Federico. Tu sei molto più occupato di me perché non fai nulla”.
Registi d’Italia. Lei ha scritto cose feroci su Nanni Moretti.
Ho scritto alcune cose, sì. Scrivere è come leggere. È un flusso che non puoi fermare. Le discussioni con Nanni rimanevano teoriche, in linea di massima sul cinema, anche se una volta, ero ospite di Battiato a Milo, iniziammo una corrispondenza epistolare non serenissima a colpi di fax. Ci siamo trovati spesso di fronte.
Sul fronte Blob?
Anche. Nanni con me si è arrabbiato spesso. Una volta, in occasione di un Blob molto duro sulla strage di Bologna, mi telefonò indignato: “Queste cose infami non si fanno, avete esagerato, siete andati oltre”. Si adombrò anche quando rimontammo alcune scene del suo miglior film, Sogni d’o ro , in un apologo onnicomprensivo sul declino degli anni 80. Una montatrice, una mia amica, assemblò in modo troppo verosimile l’opera di Nanni e le nostre successive interpolazioni, e lui mi chiamò seccato. Tempo dopo, mentre riprendevo la sua rassegna estiva tra i gradoni del Nuovo Sacher, alzò un dito dal palco all’aperto e mi fece sequestrare la telecamera.
Ghezzi, lei metterebbe mai la sua malattia in scena come Moretti fece in Caro diario?
Non è un problema che mi pongo. Forse me lo porrò e in ogni caso, potrei benissimo farlo scegliendo io il come e il quando comunicare qualcosa sul mio stato. In assoluto, non mi piace l’idea dell’esternazione. Del portare fuori. Dell’oggettivare uno stato di sofferenza. Forse può aiutare. Essere una cura. Ma è una soluzione che non mi convince. L’episodio della malattia di Nanni in Caro diario, l’ultimo, mi piacque moltissimo. Si sentiva che c’era qualcosa che lo aveva profondamente colpito. Una cosa vera.
Toccando non incidentalmente l’argomento, lei lo intervistò anche per la Rai.
Un’intervista che affrontammo come un duello al sole, in stato semi-ipnotico. Nanni mi telefonò: “Mi piacerebbe fare un dialogo in Rai, ma non vorrei si tramutasse una delle solite interviste di Baudo”. “Baudo è bravissimo” risposi. Alla fine mi convinse. E ci trovammo in uno studio. A rivedere il filmato sembriamo due ebeti. Io gli parlavo di cinema italiano con puntiglio eccessivo e lui, con il solo ausilio di un bicchiere d’acqua, rispondeva lentissimamente e teneva il punto senza cedere. Angelo Guglielmi adorava quel frammento. In effetti era notevole.
Con Freccero, Guglielmi passa per essere stata l’intelligenza massima degli ultimi trent’anni di tv.
Non dimenticherei Ricci, grande battutista e persona con cui, senza mai spingere le conseguenze fino all’estremo, ho avuto una lunga amicizia a distanza. Guglielmi e Freccero erano entrambi talenti puri. Guglielmi era autocratico, ma ha varato l’ultimo enorme esperimento culturale fatto in tv, con la grandezza di chi sa ascoltare proposte e suggerimenti. Ero sempre dietro la sua porta. Origliavo. Scambiavo informazioni. Partecipavo. Ma l’intelligenza è un marchio che quasi sempre porta all’infamia. È una dota iniqua, l’intelligenza. Un dono per cui non abbiamo alcun merito.
Freccero lo è?
Anche se nei talk show viene interpellato come oroscopista in grado di leggere passato remoto e futuro senza che nessuno gli chieda di decrittare il presente e nonostante il suo saggio sulla televisione soffra di schematismo e non mi abbia convinto, Carlo è e resta un uomo fantasioso. Siamo stati molto amici. Oggi ci vediamo di meno, ma lui è sempre affettuoso perché detesta deludere.
Le è mai capitato di deludere qualcuno?
Ogni giorno. Deludere qualcuno tocca a tutti noi. Domani, insieme a quel viaggio mai concluso sui luoghi de L’avventura di Antonioni con Michele Mancini, scriverò un libro sulle delusioni e sui grandi delusori della nostra età. Non le pare un tema interessante, la delusione?

Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 27/4/2014