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 2014  aprile 27 Domenica calendario

“I MIEI AMICI, I MIEI COMPLESSI, I MIEI DOLORI”

[Intervista a Leonardo Sciascia] –

Sciascia lei pensa di aver commesso degli errori?
Sì, certo, anche molti, ma forse il più grosso è di aver pubblicato il primo volume, perché poi se ne debbono fare degli altri, e a me piace più leggere che scrivere.
Parlano di crisi della cultura, ci crede?
C’è sempre stata, certo le nuove generazioni amano i libri meno di quanto li abbiamo amati noi, e da questo può nascere non uno stato febbrile, ma un pericolo mortale.
Che ne dice della contestazione giovanile?
Ha portato un certo movimento nella vita italiana, ha demistificato tante cose. Però bisogna, dopo averle fatte cadere, darsi da fare per costruirne anche qualcuna. Dicono che la letteratura è un’attività borghese.
C’è chi la definisce neo liberale, chi la considera di sinistra. Cos’è?
Non ho niente contro i comunisti, tranne il metodo con cui governano in certi paesi, e alcuni sbagli che hanno fatto in Italia; sono per loro, ma voglio conservare la mia libertà, e quella degli altri. Hanno fallito la politica meridionalista: tutto sommato, non hanno capito che il banco di prova della democrazia italiana è nel Sud.
Lei ha detto una volta, che l’Italia si sta sicilianizzando. In che modo, che cosa è accaduto?
Non alludo all’emigrazione dal Sud al Nord o, come alcuni credono, a un inquinamento, ma al fatto che le idee contano sempre meno e i principi morali tendono a essere aboliti. È una caratteristica nella storia siciliana: i guai dell’isola sono questi, e anche l’Italia rischia di diventare sempre più un mondo a sé, se non si aggancia saldamente all’Europa.
Cosa ne dice dei rigurgiti di destra? Ho visto a Catania dei muri sporchi di svastiche e di scritte naziste.
Catania è una città fascista, e le ragioni sono diverse. Una di queste, che non viene mai abbastanza valutata, è che da noi, in effetti, quelli che danno la sensazione di fare gli oppositori sono i missini. Li ritengono esclusi dal gioco e il gran parlare che si fa di metterli fuori legge è, in questo senso, controproducente.
Che cos’è il fascismo?
La mia avversione contro il fascismo è stata innata. È stato per me sempre, fin da quando l’ho conosciuto come balilla, un sistema che mi costringeva a fare quello che non volevo: dall’indossare le divise all’esercizio fisico, le parate militari; poi ho capito che era anche altro quando ho conosciuto la violenza del regime, oppressiva e intollerante.
Lei ha detto, e mi ha fatto piacere, che la capitale morale non è più Milano, ma Bologna. Perché?
Perché si è posta di fronte a tutta Italia come modello di buona amministrazione, per l’organizzazione delle cooperative, e perché è di fatto la città in cui, in un certo senso, è dettata la politica del Partito comunista.
Perché secondo lei il giornalista De Mauro è scomparso? Perché hanno ammazzato il procuratore Scaglione insieme con l’autista?
Per quanto riguarda De Mauro si ha l’impressione che ci sia qualcosa di più di quel fenomeno che chiamano mafia, perché fra tutto ciò che ha indirizzato le indagini degli inquirenti, o della commissione Antimafia, non vi è nulla che può spiegare la sua sparizione. Bisogna andare oltre la mafia.
Perché è stato ammazzato il procuratore Scaglione? Il giudice era convinto che la mafia avesse origini politiche e che i mafiosi andrebbero cercati anche nelle pubbliche amministrazioni?
Sulle origini non so, ma che oggi la mafia abbia a che fare con la gestione del potere e quindi con le pubbliche amministrazioni, è evidente.
E perché le indagini non hanno fatto un passo avanti?
Nessuna inchiesta progredisce in questo paese: scoppia lo scandalo e poi si ferma.
La mafia è un suo tema costante: è cambiata, cosa sta accadendo?
Non è più un solo fatto siciliano, è diventato un fatto italiano e non solo, ormai sfuggente, indefinibile; va identificandosi sempre più con la gestione del potere. La mafia ha come fine l’illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, usando la violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato. Non sono un esperto di mafia, sono semplicemente uno che è nato e vive in un paese della Sicilia, che ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone.
Cosa l’ha portata a scrivere della mafia?
Perché l’avevo vissuta negli anni dell’infanzia, quando, durante il fascismo, arrivò in Sicilia il prefetto Mori. Ero stato spettatore della sua repressione contro la mafia. Ero uno spettatore infantile, perciò ho ricordi indelebili. L’avevo vista risorgere nel dopoguerra. La letteratura siciliana era povera di racconti sulla mafia, per questo ho deciso di scrivere Il giorno della civetta, che è un esempio narrativo di ciò che era la mafia durante il passaggio da fenomeno rurale a cittadino.
Sono convinto che i mafiosi, per prosperare, hanno bisogno della democrazia, del contrasto politico; col fascismo erano in difficoltà, mancavano i grossi clienti.
Lo penso anch’io.
Non le pare che nei rapporti delle varie Commissioni parlamentari ci siano dei lunghi silenzi, personaggi o particolari omessi?
Sì, ma era scontato. Nel 1963, quando si è formata la prima commissione Antimafia, ho pubblicato un racconto intitolato Filologia, e in una forma paradossale c’era la previsione che i compiti dell’antimafia si sarebbero ridotti a una ricerca linguistica. In effetti, una classe dirigente non può giudicare se stessa, e tanto meno condannarsi.
La mafia sarà mai sconfitta?
Non ho mai creduto che il fenomeno mafioso non possa essere debellato, per fare questo ci vuole però uno Stato forte. Per me lo Stato è la Costituzione che distingue nettamente i tre poteri. Oggi, invece, i partiti fanno le leggi, le fanno eseguire e le fanno giudicare. Il Parlamento non esiste più perché i partiti gli accordi li fanno fuori dal luogo istituzionale.
Perché i siciliani hanno amato così poco Vitaliano Brancati, l’autore di “Don Giovanni in Sicilia”, “Il bell’Antonio”? E a lei vogliono bene?
I siciliani, di solito, non hanno mai amato i loro scrittori, anche per Giovanni Verga è stato così, a Catania non è mai stato amato, e così anche per Pirandello. Le persone colte, in Sicilia, ci sono, ma vivono in un certo isolamento, come tagliate fuori, come in fuga. C’è forse una certa avversione al mestiere stesso: il romanziere è uno che racconta i fatti di casa propria e questo non è poi bello per i miei compaesani. Il più amato è stato l’autore del Gattopardo: Giovanni Tomasi di Lampedusa, forse perché era morto.
Scusi Sciascia se insisto: ma per lei hanno dell’affetto?
Sì, così, in modo ambivalente: perché sono rimasto, non me ne sono andato, perché sono sempre presente, ma al tempo stesso avere questa specie di specchio dà fastidio. La bilancia pende dall’altra parte: anch’io ricevo attacchi, mi viene rimproverata l’esistenza della mafia, di aver detto che esiste la mafia in Sicilia, e vengo accusato di rovinare il turismo.
Tra gli autori contemporanei chi ammira?
Jorge Luis Borges, per la stessa ragione per cui ho tanto stimato Alberto Savinio: è quello che vorrei essere e non sono.
Qual è oggi il dovere di uno scrittore?
È quello di sempre: dire la verità e scrivere dei buoni libri.
Ha degli amici?
Sì, molti, e quasi sempre non fanno il mio lavoro: quelli che vedo più spesso a Palermo sono un giudice e un avvocato.
La sua formula narrativa si affida alla ricetta del giallo. C’è un motivo?
Sì, credo di sì: una spiegazione tecnica, ho avuto sempre il complesso di far parte di una letteratura noiosa, e poi, non so, c’è di mezzo l’esistenza di Dio, e il romanzo poliziesco presuppone sempre una metafisica, e io sono religioso, anche se non cattolico, se non praticante.
Esiste, per lei, una classifica dei peccati?
Tra quelli capitali metterei al primo posto l’avarizia, che assume diverse forme: quello che mi pare meno grave è la lussuria.
Lei è un pessimista: trova qualche stimolo per la speranza?
Non direi che sia proprio un giudizio esatto: essendo io di estrazione razionalistica, mi pare sconfortante il confronto tra l’esigenza della ragione e quello che la realtà invece offre. Ma certo che ho della speranza: i contadini dicono che senza fede non si pianta nemmeno un olivo, non si può scrivere, credo, neppure una parola.
Ha avuto grandi dolori?
La morte di mio fratello. Mio fratello era giovane, faceva il perito minerario, e si è suicidato per ragioni che non ho mai capito. E, in un altro ordine di cose, il patto Ribbentrop-Molotov. Il trattato di non aggressione tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica firmato nel ’39 dai due ministri degli Esteri.
Ha degli hobby?
Sì, le vecchie stampe.
Com’è la sua giornata?
Mi alzo alle sette, scrivo due o tre ore, poi leggo e vado fuori, preferibilmente a piedi, non ho la macchina e nessuno della mia famiglia sa guidare. Faccio di solito un giro delle librerie e delle mostre. Al cinema non vado più. Non guardo neppure la televisione, soltanto per le elezioni del presidente della Repubblica, ma dopo tanti anni che non l’adoperavamo ci siamo accorti che non funzionava, allora l’abbiamo abolita; ci piace più stare a parlare, o leggere. I rapporti con le mie figlie sono, tutto considerato, buoni: non mi contestano eccessivamente. Non esco mai di sera, alle dieci vado a dormire. La domenica è come gli altri giorni.
Qual è la sua idea dell’aldilà?
Direi che il pensiero della morte mi è sempre presente, è un’immagine, un sentimento molto famigliare; come dice Montale: “Vivere è prepararsi a morire”. Io mi preparo, ma non solo da adesso che ho superato il mezzo secolo, e ho una curiosità nei confronti della fine, anche morbosamente letteraria. Voglio vedere, come è morto Ivan Ilic nel racconto di Tolstoj, cioè voglio affrontare la morte come se fosse un’esperienza narrabile.
C’è un proverbio dalle sue parti che dice: “Munnu è statu e munnu sarà (mondo è stato e mondo sarà)”. Cosa possiamo fare per poterlo cambiare?
Tante cose, ma bisogna tener conto che la natura umana è sempre la stessa. Si può lottare contro l’ingiustizia, la fame, e credo che in questo senso l’umanità dei passi avanti li abbia fatti; ma per altri versi non ci siamo mossi dall’epoca delle caverne.
Che cosa le pesa di più nella situazione attuale?
Il fatto che non c’è fondo in questa caduta. Alcuni pensano che sia giusto sprofondare e poi risalire; io, per dirla con una battuta che ho scritto nel Contesto, penso che i nodi vengono al pettine, ma quando il pettine esiste, e in Italia non c’è.
Se le chiedessero chi è Leonardo Sciascia e che cosa cerca, come risponderebbe?
Uno che non vuole perdere niente dell’esistenza, ma che al tempo stesso, ne è molto scontento. Vorrei che gli uomini fossero più giusti, vorrei che fosse più giusta questa sosta.
Che opinione le piacerebbe avessero di lei i suoi lettori, o, domani i suoi nipoti?
Per dirla con il Manzoni: un non arruolato difensore del vero.

Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 27/4/2014