Alain Elkann, La Stampa 27/4/2014, 27 aprile 2014
ROBERTO ANDÒ “NOI SICILIANI GENTE DI CONFINE INVENTORI DI VITE”
[Intervista] –
Roberto Andò sta facendo un giro di conferenze in alcune università della Ivy League, Columbia, Penn, Princeton e Yale per presentare il suo film «Viva la libertà» con Toni Servillo, tratto dal suo primo romanzo, «Il trono vuoto»: «È una storia – spiega – nata nel vedere l’Italia rassegnata al declino: quando non ci sono speranze, si deve inventare»
Si considera più scrittore o regista?
«Entrambe le cose, non posso essere definito con un solo genere, come molti artisti. Ma c’è un bellissimo aneddoto che raccontava sempre Sandy Norman, il suo produttore, che era anche produttore di Fellini, Rosi e Antonioni. Durante le riprese dei “Racconti di Canterbury”, Pasolini improvvisamente s’innervosì e disse a Sandy: “Aiutami, devo scrivere una poesia”. E così fece, mentre tutti sul set aspettavano».
Prova lo stesso piacere nello scrivere o nel dirigere un film?
«La letteratura ha il suo piacere esclusivo nella solitudine. Il cinema implica una lotta per far tornare il senso dell’ispirazione. Thomas Mann del suo libro “Giuseppe e i suoi fratelli” era solito dire che lo scrittore, come un dio, ha la possibilità di richiamare il passato».
Chi considera il suo maestro?
«Io sono stato introdotto alla letteratura da Leonardo Sciascia. Gli ero molto vicino ed ero solito passare da lui, nel pomeriggio, quando era a Palermo, la mia città natale».
Lei è legato anche a Tomasi di Lampedusa, autore del «Gattopardo».
«Sì, perché quel romanzo è una sorta di paradigma per comprendere l’Italia e la Sicilia. E anche perché da giovane ho incontrato una cerchia di persone molto legate a lui. Era un principe, aveva letto tutti i libri e non aveva nulla da fare. Sua moglie, un’aristocratica del Baltico, stava introducendo la psicoanalisi in Italia. Per un lungo periodo di tempo ebbero solo un rapporto epistolare e si sposarono senza essersi mai incontrati. A Palermo dove poi vissero insieme nel palazzo di famiglia, lei gli suggerì di avviare un seminario. Così lui aprì una scuola con un solo studente. Un borghese, Francesco Orlando, che andò da lui per quattro anni, tre volte alla settimana, per lezioni di letteratura inglese e francese».
Lei da questa storia ha tratto un film, «Il manoscritto del principe», prodotto da Giuseppe Tornatore, giusto?
«Sì. Orlando ha raccontato la loro relazione in un libro, “Ricordo di Lampedusa”, e in parte anche nel romanzo “La doppia seduzione”. Lampedusa ha scritto “Il Gattopardo” a mano e Orlando l’ha dattiloscritto e ha fatto le correzioni. Trovo interessante l’idea di un uomo anziano che sa tanto di letteratura e a un certo punto della vita sente il bisogno di stare in una stanza con un amico più giovane per trasmettergli la sua conoscenza come Prospero nella “Tempesta” di Shakespeare. È interessante anche a causa del conflitto di classe».
Lei ha avuto la stessa esperienza con Sciascia?
«Diversa, perché Sciascia veniva dalla classe operaia».
Cosa ha imparato da lui?
«Ci vedevamo a Palermo, nel suo appartamento. Mi dava da leggere i classici francesi. Lampedusa era più legato alla letteratura inglese, Sciascia a quella francese. I suoi autori erano Voltaire, Diderot...».
Lei si considera siciliano?
«Totalmente, ma con qualche difficoltà. Sciascia diceva: “Sono uno scrittore, sono siciliano, non mi sento bene”».
Che cosa significa essere siciliani? Appartenere a una minoranza? Essere italiano? Essere di confine?
«Mi piace il confine, è un modo per includere il centro e la periferia. Credo che se uno vuole spiegare la letteratura italiana deve affrontare la dialettica tra centro e periferia».
Dov’è il centro?
«Per la generazione di Lampedusa, il centro era il luogo dove si produceva cultura. Palermo, prima di Lampedusa, non ha prodotto cultura. I centri erano Milano e Roma. Nella stessa Sicilia c’è una grande differenza, per esempio, tra ragusani e palermitani».
Lei dove vive?
«A Roma, ma mi sono trasferito tardi perché c’è un’ostinazione a non muoversi dalla Sicilia. Ma poi ti rendi conto che è impossibile viverci».
Lei ha anche lavorato con Moni Ovadia. C’è un legame tra la cultura ebraica e quella siciliana?
«Moni è il mio fratello creativo. Abbiamo trovato una legittimazione alla nostra amicizia ed è il rapporto speciale che c’è tra un siciliano e un ebreo: due culture che condividono la dimensione dell’identità, in particolare l’importanza dell’inventarsi un’identità. L’identità è un’invenzione».
In che senso?
«Per la cultura ebraica è molto importante il forte senso di opacità. Partendo da Kafka, e possiamo fare una lunga lista di nomi, esiste un particolare modo di parlare, partendo da un luogo senza nome e senza date. Quando leggi Pinter non puoi mai dare una precisa identità ai suoi personaggi. E Georges Perec descrive un mondo senza alcun riferimento».
E per quanto riguarda i siciliani?
«Viviamo una dialettica tra l’apparire e lo sparire. Un’incertezza eterna».
Alain Elkann, La Stampa 27/4/2014