Paolo Mastrolilli, La Stampa 27/4/2014, 27 aprile 2014
“IL MIO CUBO È COME LA VITA. LE SOLUZIONI SONO INFINITE”
[Intervista a Erno Rubik] –
Erno Rubik intreccia le dita nodose, riflette un istante, e poi spiega: «Volevo convincere gli esseri umani che non esistono problemi irrisolvibili». Quindi sorride, e aggiunge: «Magari non è proprio così, nella realtà. Però se non partiamo dal coraggio di avventurarci verso l’ignoto, di sicuro non arriviamo da nessuna parte».
Quarant’anni fa, nella primavera del 1974, l’ignoto per lui era un cubo composto da 54 quadratini colorati. Erno, architetto e professore ungherese, lo aveva pensato come rompicapo per tenere occupati i suoi studenti: poteva essere ruotato secondo 43.252.003.274.489.856.000 combinazioni diverse, ma solo una era quella giusta. Poco tempo dopo questo scherzo accademico era diventato il giocattolo più venduto al mondo, con una stima di 2,5 miliardi di cubi costruiti, contando anche i tantissimi falsi.
È diventato una mania, per molti, al punto che si organizzano competizioni internazionali fra chi riesce a risolverlo più rapidamente. Il record, al momento, è 5,5 secondi. Ma è pure un’icona del nostro tempo. Basti pensare che quando l’ex agente della National Security Agency più ricercato al mondo, Edward Snowden, ha incontrato in un ristorante di Hong Kong i giornalisti a cui voleva rivelare i segreti dello spionaggio digitale americano, ha dato loro appuntamento così: «Mi riconoscerete perché terrò in mano un Cubo di Rubik».
Il quarantesimo compleanno di questo mito viene celebrato al Liberty Science Center di Jersey City, con una mostra costata 5 milioni di dollari, che include un cubo d’oro a 18 carati del valore di 2,5 milioni, e un robot capace di risolvere il rompicapo davanti agli spettatori sbigottiti. Qui, sulla terrazza assolata che si affaccia verso la Statua della Libertà, incontriamo il settantenne Rubik.
Perché ha costruito il cubo?
«Non c’è una sola risposta. Mi ha sempre affascinato la capacità della mente umana di risolvere i problemi. Pensate agli antichi greci, che erano riusciti a determinare il diametro della Terra senza satelliti o alcuno strumento moderno. Mi piacevano la tecnologia e i suoi strumenti, poi, che avevo imparato a conoscere da mio padre ingegnere. Allora ho creato uno strumento che allenava la mente a risolvere i problemi, a credere che fosse possibile risolverli».
Si aspettava un simile successo?
«Assolutamente no. Spesso mi sono chiesto: cos’è il successo? Fare soldi? Diventare famosi? Sì, ma non basta. Per me significa trovare la propria armonia interiore, e fare le cose che riteniamo interessanti».
Perché quarant’anni dopo milioni di persone trovano ancora interessante giocare col suo rompicapo?
«Per la sua natura, credo. In fondo è un piccolo modello dell’universo, dove semplici elementi si combinano in forme molto complicate. Al principio pensi che l’unica maniera per ricomporre il cubo sia tornare sui passi compiuti, ma non è così: il traguardo è uno solo, ma le vie per arrivarci sono infinite, e questo è il fascino della vita. Avere il coraggio di esplorare l’ignoto».
Come mai adesso si è messo a disegnare videogiochi?
«Il cubo si trova al confine di molte cose: scienza, arte, ma anche mondo digitale e analogico. Credo che abbia rappresentato un’anticipazione della rivoluzione digitale, e si intreccia bene col mondo del computer».
Lei si riconosce nella filosofia della rivoluzione digitale?
«Il computer non è un Dio, ma uno strumento che ci aiuta a realizzare i nostri obiettivi. Il confine fra reale e virtuale è molto labile. Quando sognamo, i nostri sogni ci sembrano veri, ma quando poi ci svegliamo sappiamo che non siamo in grado di volare. Attraverso i computer, però, si possono azionare gli aerei che ci consentono davvero di volare. Ecco, a me interessa questo aspetto della rivoluzione digitale: la sua capacità di mescolare le cose. Prendere il virtuale, e attraverso la tecnologia trasformarlo in realtà. Risolvere i problemi e ottenere risultati, rispondendo alle esigenze degli uomini, che restano il nostro obiettivo primario. In altre parole, la ragione per cui inventai il cubo».
Paolo Mastrolilli, La Stampa 27/4/2014