Antonio Gnoli, la Repubblica 27/4/2014, 27 aprile 2014
GIULIO QUESTI
[Intervista] –
Un’intera giovinezza si lasciò spazzare via nei due anni terribili della Resistenza. È così che immagino l’esperienza del partigiano Giulio Questi: «La mia memoria mi inquieta perché non è dolce né arrendevole. Mi stordisce come un pugno violento. E non posso farci niente», dice di sé e dei suoi ricordi. Questi ha scritto tra i più bei racconti che abbia letto sulla Resistenza. Poi, nella vita, ha fatto altro: documentari, film. Forse a un certo punto, negli anni in cui visse a Cartagena, ha perfino sognato di essere Gabo: «C’era Macondo. Tutti inseguivano Macondo meno Gabo. L’America Latina è grande e io ero piccolo e indaffarato. Mi chiamavano il vagabondo dei Caraibi».
È ancora bello. La barba bianca, l’occhio salivoso ma vispo lo restituiscono come un Ulisse, la cui lunga astuzia lo ha portato a superare in marzo la soglia dei novant’anni. «Ora scricchiola il mio tempo», dice. «Anche perché non ci sono più inesorabili profondità da raggiungere. Saggezze da esibire. Sono stato audace e sconsiderato. Mi guardo intorno, qui nella mia camera tra le cose che ho raccolto, e sento che tutta la vita che ho percorso la rifarei interamente. Cazzate comprese. Posso offrirle un whisky?». Mentre parla accarezza un grande bicchiere: «C’è dentro un terzo di irlandese, il resto è ghiaccio e acqua. Un beverone che mi tira via la tristezza. E non ubriaca. Imparai a berlo da Orson Welles».
Lo ha conosciuto?
«Lo vidi in due occasioni. Una a Taormina. La prima volta a Madrid. In un bar. Era seduto al bancone e sorseggiava il suo beverone. Lo riconobbi. Imponente. Solitario. Non gli chiesi niente. E lui non disse nulla. Gli sedetti accanto. Studiai le sue mosse. Ascoltavo il gorgoglio del whisky scendere nell’enorme cavità della sua gola. Uno spettacolo di primitiva grandezza».
E lei che ci faceva a Madrid?
«Aspettavo l’arrivo del produttore per il mio film. Un western. Non c’erano soldi. Solo promesse e cambiali. Erano gli anni Sessanta. Ma potevano benissimo essere i Quaranta, i Trenta e giù giù fino alla mia data di nascita. Sempre lo stesso assillo di denaro».
Famiglia povera?
«Normale. Venivo da una grande famiglia contadina che dai campi del bergamasco si evolse verso la città. Mia nonna aveva generato 19 figli. Gliene restarono 10. Negli ultimi tempi era sempre a letto. La pelle era del colore blu: i capelli, il volto, le mani. Una gonfia nuvola di carne blu deposta sul letto. Il cuore, sfiancato dalle gravidanze, le aveva provocato quella tinta di morte».
Che effetto le faceva?
«Ero incuriosito. Dal suo corpo e dalla sua vita. Quando nacqui i nonni rilevarono un forno. La mia culla fu una cesta di pane. Dormivamo al piano superiore: una scala dal forno portava a un lungo corridoio. Ricordo i topi, i gatti e i sacchi di farina. Crebbi bene. Mio padre tecnico della Westinghouse mi fece fare un buon liceo classico a Bergamo. La città era stantia. Divorata dal perbenismo e dalla Chiesa. Ero insofferente alla divisa fascista e alle preghiere del parroco. Poi giunse il 25 luglio».
La caduta del fascismo.
«Sì e in seguito ci fu il ricostituirsi dell’esercito repubblichino. Dovevo scegliere da che parte stare».
E scelse?
«A 19 anni non avevo le idee chiare. Decisi per le montagne vicino a casa. Nella Valtellina. La fame fu il primo problema. Un gruppo armato di noi scese in paese e svaligiò una banca. Comprammo cibo. Ci sentivamo euforici. Poi rapinammo un industriale milanese. Lo minacciammo di dirci dov’era la cassaforte. Ma non c’era. Alla fine arraffammo quello che vedevamo».
Non dovevate combattere i tedeschi e i fascisti?
«Certo. Ma avevamo bisogno di vettovaglie, di armi. Poi, durante una spedizione, la mia brigata si trovò circondata in un bosco. Solo io e altri due riuscimmo a rompere l’accerchiamento. I fascisti uccisero o catturarono i compagni. A quel punto restai solo. Decisi di entrare nella banda di Angelo Del Bello. Anche lì finì male».
Che accadde?
«Nel frattempo la Resistenza si era organizzata con strutture politiche e militari. Partì l’ordine che non si sarebbero tollerati atti di indisciplina o di violenza gratuita. Del Bello rifiutò di obbedire. Il comando decise l’eliminazione della banda. Lo sorpresero in una piccola frazione con tre uomini. Vennero fucilati sul posto».
E lei dov’era?
«Con il resto della banda in un paese non lontano. Ci trovarono. Qualcuno non si arrese e cadde nel conflitto a fuoco. Gli altri, me compreso, furono fermati. Decisi di entrare nella nuova brigata. Peccato che il comandante era un cattolico fanatico. In quanto antifascista e ufficiale dell’esercito, il comando gli aveva assegnato la guida di una brigata. Ma era inadatto. Mandò molti di noi al macello. Dopo una missione decisi di non rientrare».
E andò dove?
«Mi nascosi. Il comandante mi condannò alla fucilazione per diserzione. Cominciò la caccia. Passai due mesi orribili. Braccato nei boschi. Non riuscirono a prendermi. Alla fine incontrai il mitico comandante Mino. Gli raccontai la mia storia e mi accolse nelle sue file. Venni a sapere che era la Brigata Camozzi legata a Giustizia e Libertà. Mino aveva messo su una squadra autonoma: La Resistenza non è stata solo Bella ciao e gli uomini non furono solo degli eroi. Accaddero cose straordinarie. Di sacrificio estremo. Ma io ho voluto raccontare il mondo che sta sotto più che quello che sta sopra».
Poi arrivò la Liberazione. Cosa fece?
«Furono giorni memorabili. Ma subito dopo ci sentimmo spersi. Eravamo stati la legge. E poi più niente. Ci tolsero le armi. La grande allegria di libertà si spense a poco a poco. Lo Stato si riorganizzò nel nome della continuità. Tornarono i vecchi prefetti. Per cosa avevamo combattuto?»
Si sentiva uno sconfitto?
«Mi sentivo come uno che doveva ricominciare da capo. Vissi per qualche mese di espedienti. Terminai gli esami all’università. Diedi la tesi di laurea su Dino Campana. Ebbi come correlatore il filosofo Antonio Banfi. Tornai a Bergamo e insieme ad altri fondammo una rivista: La cittadella. I miei articoli furono notati da Elio Vittorini. Mi offrì di scrivere per il Politecnico. E mi propose un libro di racconti da pubblicare nella sua nuova collana: I Gettoni» .
La fortuna stava girando?
«Avevo realizzato alcuni documentari tra cui uno che andò al Festival di Venezia. Pensai che il cinema potesse essere la mia strada. Tanto è vero che mollai il libro e informai Vittorini».
Come reagì?
«Malissimo. Si sentì tradito. Disse che il cinema era fatto di stronzate e che mi sarei pentito. Fu una predica insieme patetica e violenta».
Ma nel cinema come pensava di affermarsi?
«Avevo una lettera di presentazione per Luchino Visconti. Mi accolse con molto garbo. Disse che avrebbe girato un nuovo film. Aveva visto un mio documentario su Acitrezza e gli era piaciuto. Promise che mi avrebbe chiamato».
E invece?
«Il film – La carrozza d’oro alla fine fu realizzato da Jean Renoir. Mi ritrovai a Roma senza una seria prospettiva professionale. Fu grazie a Ettore Giannini che divenni aiuto regista in Carosello napoletano, era il 1953. In seguito ho lavorato, sempre come aiuto, con Valerio Zurlini e Francesco Rosi. Con quest’ultimo feci La sfida e gli preparai le ambientazioni in Germania per I magliari . Tornai da Amburgo con una broncopolmonite. E divenni attore per caso».
Per caso?
«Sì, durante le riprese della Dolce vita Antonioni mi presentò a Fellini. Si appassionò alla mia storia e volle darmi una parte nel suo film. Lo stesso, in seguito, accadde con Pietro Germi e il suo Signori e signore. Non amavo recitare. Non sopportavo la noia. Intere giornate ad attendere per un ciack. Meglio stare dietro la macchina da presa».
Lei ha fatto in tutto tre film.
«Il primo fu un western oggi considerato un cult: Se sei vivo spara , vi rifusi in una specie di delirio barocco la mia esperienza di partigiano durante la Resistenza».
Perché non ha mai girato un film vero sulla Resistenza?
«Il produttore Franco Cristaldi me lo propose. Mi chiese se avevo letto Fenoglio. Conoscevo Primavera di bellezza, da cui qualche anno dopo sarebbe scaturito Il partigiano Johnny . Mi disse: so che stai scrivendo sulla Resistenza. Perché non vai a capire se possiamo ricavarci un film?».
E lei andò?
«Arrivai ad Alba. Ci incontrammo in trattoria. Avevamo storie molto simili alle spalle. Simpatizzammo. Disse che stava lavorando a un racconto: Una questione privata . Sulla tovaglia di carta buttammo giù una scaletta. Poi si fece tardi. Mi disse che doveva rientrare. Ci ripromettemmo di restare in contatto».
Che anno era?
«Era il 1960. Ci scambiammo alcune lettere. Poi non ebbi risposta. Passò qualche mese. Provai a cercarlo. Qualcuno della famiglia mi disse che si era ammalato. Morì di cancro nel febbraio del 1963. La notizia mi fece male. Quella notte compresi che se ero scrittore in parte almeno lo dovevo a lui».
Perché?
«Per la sua grandezza, per la forza che esprimeva e perché quello che poteva essere solo un fantasma – la sua esperienza partigiana – divenne una cosa viva, palpitante e anticonformista».
Mentre la sua di grandezza? È come se la sua vita sia un insieme di bellissimi capitoli incompiuti.
«Forse la mia grandezza è nel non essere mai stato grande».
Per questo a un certo punto mollò tutto e si rifugiò in Sud America?
«Quella stagione durò un decennio. E tutto nacque in modo curioso. Volli raggiungere la compagna che amavo: un’insabbiata».
Una cosa?
«Un’insabbiata. Aveva lavorato come costumista per Queimada . Pontecorvo girò quasi tutto il film a Cartagena e, finite le riprese, lei decise di restare laggiù. La raggiunsi per amore. Ma la verità è che Carlo Ponti mi aveva cacciato. Ruppe il contratto che mi legava a lui, mi diede dei soldi con i quali, insieme a un socio, aprii uno studio a New York. Volevamo realizzare film a basso costo. Combinai ben poco. Facevo su e giù con i Caraibi. Vennero i giorni logori. Fu allora che decisi di passare un periodo tra gli indiani della Sierra Nevada, nel Nord della Colombia, sulla punta estrema delle Ande».
E che esperienza fu?
«Oserei definirla mistica. Gli indiani di quella popolazione sono convinti di essere i regolatori dell’universo. Quelli che donano al mondo l’armonia».
E Cartagena? Glielo chiedo perché il suo ultimo racconto ha come protagonista Gabo.
«Lo vidi diverse volte. Passammo alcuni giorni assieme alle isole del Rosario. Era un uomo fantastico: una testa piena di ciocche di capelli e un naso ribelle. Occhi meravigliosi. Due supervisori. Ci aveva condannati al carcere di Macondo. Tutti allora pensammo che Macondo fosse la libertà. Il luogo dove avremmo smaltito le nostre angosce. Ma non era vero. Esisteva solo nella sua fantasia. Fu il suo colpo di genio. Ma a noi restò solo il caos».
Antonio Gnoli, la Repubblica 27/4/2014