Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 27/4/2014, 27 aprile 2014
IL LIBRO INFINITO
Professore di tecnologia e collaboratore del Guardian, John Naughton qualche tempo fa ha raccontato un’esperienza singolare. Aveva acquistato in versione ebook un libro di cui si è parlato molto nei primi mesi dell’anno, The Second Machine Age di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee. È un libro che attribuisce l’assottigliamento del ceto medio e l’aumento del divario fra ceti ricchi e poveri ai progressi della tecnologia, più che all’egemonia del liberismo stabilita con Margaret Thatcher e Ronald Reagan. A un paio di settimane dall’acquisto, Naughton si è visto arrivare un’email da Amazon che lo avvisava dell’uscita di una nuova versione dello stesso libro, che poteva scaricare gratuitamente e che conteneva, proseguiva l’email, «significative modifiche editoriali». E il bello, nota Naughton, è che il libro di Brynjolfsson e McAfee parla di come il progresso delle attuali tecnologie sia stato molto graduale per poi farsi frenetico: dobbiamo aspettarci che succeda lo stesso per la tecnologia dell’ebook? Addirittura per i book medesimi?
Nei paesi anglofoni l’ebook ha già cambiato molte dinamiche editoriali. Pare esserci una legge per cui l’accelerazione avviene quando una tecnologia entra in rete con le altre. È successo con i computer, quando è sorta Internet; con i cellulari, quando non sono più stati solo telefoni; sta succedendo con l’ebook (anche se più debolmente in Italia) quando lo stesso libro può essere letto da chi lo ha comprato su diversi dispositivi e in un certo senso è «la stessa copia» (rimane «il segno», sono riportate sottolineature e note a margine, eccetera).
Perché una tecnologia diventi necessaria occorre che renda possibile qualcosa che prima non lo era. Il fatto di poter con una certa facilità aggiornare un libro, raggiungendo i medesimi lettori, per esempio. Ma cosa succede se quindici giorni dopo gli autori di The Second Machine Age ci ripenseranno ancora? Ritocca qui, aggiungi là, togli e sposta, il libro potrebbe essere completamente rifatto, sostenere una tesi opposta a quella iniziale, parlare d’altro. Allarmante? Se si pensa che a volte le case automobilistiche richiamano i clienti in officina per rimediare a difetti di fabbricazione anche gravi, c’è almeno il sollievo che con i libri non si fa male nessuno. Eppure l’instabilità di un testo non manca di inquietare, un po’.
Beninteso l’editoria di carta ha sempre registrato casi analoghi. La nostra letteratura ha una sua veneranda tradizione di opere riviste dall’autore anche a distanza di molti anni: dal Canzoniere di Petrarca ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni sino a Fratelli d’-Italia di Alberto Arbasino (Feltrinelli 1963, 1967; Einaudi, 1977; Adelphi, 1993). Nel 2010, a trent’anni di distanza, Umberto Eco ha preparato una nuova edizione del Nome della Rosa , con quella che ha definito un’operazione di «leggera cosmesi», sciogliendo qualche citazione latina e aggiustando il ritmo di alcuni passaggi. Ritocchi più o meno vistosi vengono ordinariamente apposti fra prima e seconda ristampa, per correggere errori piccoli e grossi. Ma una nuova edizione può essere l’occasione per aggiungere riferimenti più attuali e toglierne di obsoleti. Un caso recente è quello di Francesco Cataluccio, che ha appena ripubblicato da Einaudi il suo saggio Immaturità, uscito dieci anni fa, rivedendo il testo e aggiungendo un capitolo. Marco Belpoliti ha invece cambiato sia editore sia titolo, riscrivendo ed estendendo il suo Crolli ( Einaudi, 2005), rendendolo un libro totalmente diverso, che ha pubblicato da Guanda come L’età dell’estremismo . Nei libri accademici, poi, ci sono tristi pratiche per gonfiare la propria bibliografia con titoli che di inedito hanno proprio solo il titolo, o poco più. Insomma ci sono le integrazioni, i senni del poi e i ripensamenti; ci sono i rifacimenti strutturali e c’è l’arte di arrangiarsi, e di riarrangiare i propri libri come i cantanti pop fanno con le canzoni. Tra l’altro il turn over sui banchi delle librerie è sempre più frenetico, quindi è più difficile già per l’autore pensare di avere scritto un «libro che resterà». Figurarsi per il lettore.
Ciò che rende sostanziale il cambiamento è però che l’ebook ha praticato una separazione di testo e libro, tanto è vero che le nuove versioni non risultano aggiuntive, bensì sostitutive delle precedenti. Nella lavorazione tradizionale, il libro di carta, stampato, copertinato e rilegato, costituiva una cristallizzazione del lavoro dell’autore. E allora si diceva che il libro «faceva testo»: come una foto fa da ritratto, magari alla fine di un lento lavoro di maquillage e allestimento di luci e pose. L’imprimatur era un ne varietur. Naughton rammenta con malinconica scaltrezza il sollievo dell’autore che ricevendo la prima copia del libro stampato pensa di potersi finalmente dedicare ad altro.
Non arrivando mai alla carta e restando quindi allo stato digitale della sua esistenza, il testo dell’ebook conserva invece la potenziale malleabilità del file in cui l’autore lo ha videoscritto.
Si intuiscono già le relative fattispecie.
Libri millesimati, da citare come vini specificando il momento non della vendemmia ma dell’edizione. Libri lunari, che cambiano forma ciclicamente, fra tre o quattro versioni differenti. Libri telescopici, a cui si aggiunge un capitolo ogni tanto e col tempo passano da pamphlet a volumoni. Libri cicatrizzati, dove un coniuge o un amico offeso per un dettaglio non sono più costretti a rassegnarsi ma ricattano: «Adesso tu lo cambi». Libri bipolari, in cui l’assassino nei mesi pari è il maggiordomo e nei mesi dispari è il cocchiere. Libri rashomonici, dove a ogni aggiornamento la versione è raccontata da un narratore diverso. Libri enigmatici, dove il lettore è sfidato a stanare l’unica vocale che è stata cambiata da una versione all’altra, rendendo il bosco un basco o Lecce Lecco. Libri alla Alì Agca, dove ogni mese l’autore si pente e dice: basta, questa volta vi dico come è davvero andata.
I filologi, finora frustrati dal word processing, troveranno nuovi campi di ricerca. E se il lettore comune avrà di che lamentarsi vorrà dire che Humphrey Bogart farà loro una telefonata opposta a quella famosa: «Senti? Non è la stampa, bellezza. E io ci posso fare di tutto».
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 27/4/2014