Camilla Baresani, Io Donna 26/3/2014, 26 marzo 2014
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è una donna che inizia cento frasi, ciascuna con dentro un’altra interessante da sviluppare
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è una donna che inizia cento frasi, ciascuna con dentro un’altra interessante da sviluppare. Essere ricchi è condizione propria di diverse persone che in genere si limitano a togliersi sfizi privati, mentre lei fa parte di quella schiera di individui che hanno deciso di avere una vocazione e una missione. La sua è... (preparatevi, è una lunga lista): collezionare arte contemporanea, esporla in una fondazione appositamente creata - la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino -, portarla in giro per il mondo, aiutare giovani artisti a realizzare i propri progetti, formare ragazzi che sappiano raccontare le opere al pubblico. Infine, e soprattutto, dare la possibilità a più persone possibile, a partire dagli studenti, di avere un accesso personale, su misura, a quel mondo dell’arte contemporanea spesso non raccontato dalle scuole, in un Paese che ha nella storia dell’arte e nel passato il proprio punto di vanto. Insomma, PSRR (come con impronunciabile acronimo la chiamano i collaboratori) è la prosecutrice di quella vena femminile, collezionistica e mecenatesca, che nel secolo scorso ha visto alcune ereditiere americane fondare musei che oggi visitiamo con gratitudine e venerazione. Lei è laureata in Economia e commercio, ha lavorato nell’azienda meccanica di suo padre, si è sposata, ha due figli. Come mai a un certo punto l’arte contemporanea si è impossessata della sua vita? Sono partita da una mamma che mi portava nei musei e collezionava oggetti antichi. Però il mio interesse specifico per l’arte contemporanea è nato dal nulla, anzi da un’amica collezionista, Rosangela Cochrane, una donna visionaria e anticipatrice, che mi ha portato con sé nel 1992 in un viaggio a Londra. Lì, insieme a Nicholas Logsdail, il fondatore della Lisson Gallery, abbiamo visitato decine di studi di artisti. Incontrare gli artisti è stato decisivo? L’arte contemporanea è l’unica che ti metta a contatto con chi produce l’opera, che poi è la cosa più semplice, non costa nulla ma fa la differenza: permette di fare amicizia con gli artisti e capire cosa pensano. È stato a quel punto che ho iniziato a collezionare. Negli anni Novanta non era di moda come adesso, e c’era carenza di musei di arte contemporanea. Io però volevo condividere le opere acquistate e desideravo supportare gli artisti che non sapevano dove esporre (nella foto a destra, Maurizio Cattelan, Bidibidobidiboo, 1996). Cosa la appassiona dell’arte contemporanea? L’arte contemporanea, se è di qualità, trasmette sensazioni e idee anche a chi non ha una preparazione specifica. Le opere non devono essere belle bensì parlare del politico, del sociale, dell’oggi. Non deve decorare le nostre case, ma avere una forza dirompente, espressiva. Il bello è che, se ti metti con un po’ di umiltà di fronte a un’opera contemporanea, puoi creare un’intesa col suo significato anche se non conosci la storia dell’arte. Suo marito, che ha sposato una giovane laureata in Economia e commercio, come ha vissuto questa travolgente trasformazione? Ha sempre condiviso quello che facevo e ha capito che questo era un mio spazio. Pensi che con i nostri figli non abbiamo mai fatto vacanze tradizionali, ma siamo sempre andati al seguito dell’arte, dove c’erano le mostre, le biennali, gli studi degli artisti. Perché una fondazione e non un museo? Con la collaborazione del critico e curatore Francesco Bonami, ho immaginato lo spazio non come la casa delle mie opere, come fanno molti collezionisti, bensì come un luogo con due obiettivi: il supporto e il sostegno agli artisti (lei non immagina la gioia che provo nel vedere un’idea che da progetto diventa opera) e la creazione di uno spazio che permettesse a tutti di comprendere l’arte contemporanea. Lei parla con orgoglio dei "mediatori culturali" della Fondazione. Cosa fanno? Sono giovani appassionati, che provengono dall’università o dall’accademia, e che noi formiamo affinché, tramite il dialogo, creino una mediazione tra opere e pubblico. Proprio pochi giorni fa ho ricevuto la lettera di una signora non vedente che ci ringraziava perché aveva visto le opere attraverso gli occhi e le parole di una nostra mediatrice. C’è poi l’altra sua collezione spettacolare, di "costume jewellery". Di che tipo di gioielli si tratta? Sono "gioielli fantasia", la cui storia particolare mi ha appassionato: sono stati creati in America negli anni Trenta, durante la crisi della Grande Depressione. Sono falsi, fantasiosi, molto grossi e molto colorati. La bellezza di questi gioielli è che sono i più democratici al mondo, ognuno è stato prodotto in milioni di copie. Io che vesto sempre in modo piuttosto rigoroso, con queste spille e collane mi lascio andare. Adesso che ci sarà un’inaugurazione per me molto importante, la mostra Stanze alla Fondazione Olbricht di Berlino dal 2 maggio al 21 settembre, sto già pensando a quale gioiello della collezione indosserò.