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 2014  aprile 29 Martedì calendario

INTERVISTA A DARIA BIGNARDI

Pranziamo leggero ordinando le stesse cose in un caffè letterario fra milanesi bene, fuori piove sul parco Don Giussani. Prima di parlare dell’inizio della sua carriera ha raccontato dei mesi a Londra dopo la laurea al DAMS, a fare la commessa in un negozio, a imparare l’inglese, a copiare gli abiti anni Quaranta di Kim, la sua collega in negozio, già vintage a metà anni Ottanta, con i fidanzati “di colore, anche loro vestiti tutti elegantissimi… Kim si metteva il rossetto e le scarpe basse con la punta”, e ascoltava i Black Uhuru…

Daria Bignardi: A ventitrè anni ero tornata a Ferrara da Londra perché mio padre stava morendo. Sai, ero in quell’età in cui non sai bene cosa farai, hai delle priorità proprio fisiche, una delle mie era la ribellione alla famiglia… L’hai letto Non vi lascerò orfani: io avevo dei bravissimi e carissimi genitori che erano degli anziani missini, molto anziani e molto missini, onestissimi, persone meravigliose appunto per onesta, affetto… ma molto anziani: mio padre mi ha avuta che aveva quasi cinquant’anni, e poi erano gli anni ’80 e io non potevo certo immaginare di rimanere a lungo in famiglia perché loro erano molto tradizionali come valori, come regole… E quindi la mia priorità, che poi penso sia anche oggi per i ventenni, non penso sia tanto diverso, magari fanno una vita un pochino più comoda quindi ci pensano quattro volte prima di mollare tutto e andarsene, io non facevo una vita particolarmente comoda… Come hai letto, i miei avevano avuto un tracollo finanziario durante la guerra quindi erano proprio scesi di tre gradini nella scala sociale, da figli di genitori laureali, mio nonno era direttore di banca, l’altro era veterinario, i miei facevano la maestra e il rappresentata, quindi era una vita molto semplice…

E quando sei andata a Milano come hai trovato lavoro?

Allora c’era un sacco di lavoro… Sul Resto del Carlino, al venerdì, c’erano le offerte di lavoro e nelle offerte di lavoro c’erano anche i bandi di concorso e vedo tra questi bandi un concorso con una borsa di studio per diventare Account Executive, che non sapevo neanche cosa fosse, però fresca di inglese, lo avevo imparato molto bene, mi presento a questo concorso a Reggio Emilia, c’erano 25 posti, e arrivo nona… e ho fatto questa borsa di studio a Reggio Emilia, che preveda sei mesi di corso e uno stage a un’agenzia di Milano, quindi dopo il corso ho fatto lo stage a Milano… Appena arrivata a Milano mi faceva schifo l’agenzia…

Era l’ ’83-‘84, mi faceva schifo l’agenzia dove mi avevano messo, ho fatto dieci Curriculum piuttosto brillanti, li ho mandati alle dieci più grandi agenzie…

Brillanti nel senso di inventati?

Ma nel senso di smart… Mi hanno risposto tutte, per dirti come erano diversi i tempi, le dieci maggiori agenzie… Ho fatto i colloqui da tutti, mi hanno assunta immediatamente con un contratto a tempo indeterminato alla TBWA, un’agenzia internazionale. Allora la pubblicità era il lavoro da fare, giravano un sacco di soldi…

Ho lasciato per diventare giornalista. Il praticantato l’ho fatto a Chorus, che era un mensile di Leonardo Mondadori, erano gli anni ’80 a Milano, era proprio un’altra vita: io sono entrata facendo la Photo Editor, non capivo nulla di fotografia, la detestavo. Mi ero presentata e avevo convinto Giordano Bruno Guerri, che era il direttore, ad assumermi perché io ero bravissima, sapevo tutto di fotografia – e non era assolutamente vero, però volevo entrare in un giornale e l’ho convinto che ero la persona giusta.

Ronzavo attorno allo scrivere da sempre, da quando avevo, penso, quattro anni e mezzo però ti ho spiegato il tipo di famiglia, a quei tempi non esisteva che tu dicevi “faccio lo scrittore da grande” Gli scrittori erano Calvino, Moravia, non pensavi che potevi diventare proprio tu il nuovo Calvino e nemmeno Elsa Morante, non era una possibilità plausibile… quindi ho sempre pensato che avrei fatto l’insegnante di lettere come mia madre e mia sorella… E poi però, la cosa che ti dicevo prima, l’urgenza dell’indipendenza economica, mi ha fatto cercare lavoro… a quel punto arrivata a Milano, ormai la professoressa non la facevo più, ho pensato a qual era la cosa che mi avrebbe fatto scrivere e leggere, e ho pensato a provare a entrare in un giornale… Quindi, avendo questa competenza che mi veniva dai quattro anni in pubblicità, sono andata da Guerri e l’ho convinto…

Lui ovviamente ti ha ricevuta.

Ma certo! (ride)… Guarda, negli anni ’80 c’era davvero tanto lavoro… Sai, Leonardo se ne era andato dalla Mondadori e aveva fatto la sua casa editrice, la Leonardo Mondadori, e aveva un grande budget per fare questo mensile che era il Vanity Fair italiano ante litteram…

Io sono entrata come Photo Editor, dopo poco ho fatto outing e ho detto “guardate io non ci capisco nulla, non me ne frega nulla della fotografia” (ride) pensa che Leonardo mi mandò a New York a fare uno stage di un mese da Bob Pledge alla Contact Press Image, la più grande agenzia del mondo… e io lì capii definitivamente che non me ne poteva fregare di meno della fotografia, quindi tornando dissi a Guerri “io voglio scrivere, fammi provare” e lui mi fece provare. Il primo pezzo fu su una fotografia “Nudo con gatto” e io dovevo parlare di questa foto in cui si vedeva una donna nuda con un gatto (ride).

Poi hanno chiuso e lì sono diventata freelance/disoccupata. Non mi sono spaventata perché mi piaceva moltissimo scrivere, ho cominciato a collaborare con Panorama… Per due anni ho collaborato con Cultura & Spettacoli, il che voleva dire che al venerdì loro facevano riunione di redazione, decidevano cosa avrebbero messo, avevo la chiusura al lunedì, venerdì mi chiamava Paola Jacobbi, che allora era dentro al giornale, e mi diceva “facci venti righe su Fellini che fa la pubblicità della pasta… trenta righe su Carlo Fruttero”… allora non c’era ancora internet, quindi ti mandavano la rassegne stampa da Panorama, cartacea, e io passavo il weekend, felice, a scrivere questi pezzi, lunedì mattina entro le nove mandavo il pezzo, credo di aver avuto il primo portatile, un Mac, che hanno prodotto, quindi col modem mandavo il mio pezzo…

Che anno era?

A quel punto sarà stato l’88-’89… Mi piaceva moltissimo… mentre il mio primo pezzo firmato uscì sul Giornale. Mi ricordo, un’emozione quando vidi il nome stampato… Mio padre era morto, mia madre, che era rimasta a Ferrara, era sempre contraria: era contraria che venissi a Milano, poi addirittura lascio il lavoro dove ero assunta a tempo indeterminato per andare in un giornale e quindi “sei una pazza!”, e una volta che il giornale ha chiuso, “hai visto?, sei disoccupata…” Mia madre è sempre stata così tutta la vita… Ma guarda che mi è servito moltissimo, cioè avere qualcuno che ti dice quello che non devi fare è utilissimo, perché sei molto più motivato a farlo (ride)… Io la ringrazio, avrei fatto un decimo di quello che ho fatto se mia madre fosse stata d’accordo. Non è mai stata d’accordo, con nulla di quello che ho fatto, ed è stato molto utile, mi ha reso reattiva. Sai, serve quello, essere intraprendenti, essere determinati, essere eversivi… se tu cresci con un macigno davanti, poi ti abitui che ogni cosa te la devi conquistare.

E poi lì tu hai conosciuto Lerner?

Io in quegli anni di freelanceaggio in cui collaboravo con Panorama, con La Stampa, con Sette, con Photo, che ancora che mi deve pagare, feci un viaggio a Gerusalemme, a Natale, con un mio amico, e lì conobbi Lucia Annunziata, che allora era corrispondente di Repubblica da Gerusalemme ed era amica del mio amico. Simpatizzammo moltissimo, io metti che avrò avuto a quel tempo ventinove anni e Lucia mi disse “il futuro del giornalismo è in televisione, ma cosa stai a perder tempo coi giornali! Devi fare televisione, vai da Lerner e offriti come sherpa, portatore d’acqua, gratis, così impari…” E io lì che la stimavo moltissimo così feci, mi presentai da Lerner e gli dissi “voglio lavorare con te, anche gratis”…

Lui lavorava in Rai, a Corso Sempione, telefonai, mi ricevette, secondo me non gli piacqui, però si fidava di Lucia e quindi entrai in redazione. Gad avrà avuto quarant’anni e stava facendo Milano, Italia, che era un bellissimo programma, io lo avevo guardato prima di andare, gli dissi che mi piaceva molto, che speravo di essere utile, che avrei lavorato per lui anche gratis… infatti mi assunsero con uno stipendio di quattrocentomila lire al mese…

Iniziavamo alle nove del mattino e io finivo a mezzanotte e mezza, perché c’era al mattino la riunione, il pomeriggio una piccola pausa ma noi rimanevamo lì e poi la sera di andava in diretta… tutti i giorni! “Milano, Italia” era la seconda serata di Rai3… Puoi immaginare che vita ho fatto per tre anni. Però Gad era bravissimo, Gad era, sai, la televisività…

No, non lo so, spiegamelo tu.

Televisività vuol dire capire cos’è la tv, come funziona. Ti faccio un esempio: tra redattori ci si divideva le varie puntate, tipo “tu Daria sei della puntata sulle quote latte”, allora io vado a Lodi a cercare gli allevatori… perché televisione vuol dire che i tuoi virgolettati son le persone, no?

Andavo a trovare le persone che poi dovevano venire nel pubblico… perché c’erano sul palco un po’ di politici e poi c’era un pubblico parlante ed erano i redattori che dovevano trovare questo pubblico, quindi noi dovevamo trovare, la maggior parte delle volte per telefono mentre a volte andavamo proprio a trovarle, le persone che sarebbero intervenute, poi scrivevamo a Gad “ci sono venti allevatori del Lodigiano che dicono che è una vergogna perché…”

Queste spedizioni erano una cosa complessa da fare? Come facevi a prendere appuntamento?

Telefonavo all’associazione Coldiretti chiedendo di fare un incontro per esempio… Era un programma importante “Milano, Italia”, in Lombardia poi. Quindi io preparai questa puntata ed ero disperata perché la trovavo noiosissima, era molto difficile, pensavo sarebbe andata malissimo e Gad ebbe l’idea di portare una mucca sul palco… guarda che nel ’92-’93 era un’idea rivoluzionaria, quindi quella sera insieme ai cinquanta allevatori arrivò una mucca che issammo sul palco e la puntata andò bene grazie a questo colpo di genio di Gad… (ride)

Ho iniziato a capire lì che cosa voleva dire… sai, perché? È un istinto, o ti viene o non ti viene, c’è gente a cui non viene mai, però se hai quel senso della messa in scena, del ritmo, che però deve essere unito ai contenuti, a quello che va detto, alla deontologia, metti tutto insieme…

È stata una scuola pazzesca, io l’ho fatto per tre anni, due anni con Gad e un anno con Gianni Riotta…

E qual è stata la prima trasmissione che hai condotto? Chi è stato a decidere di mandarti in video?

Allora, io prima di “A tutto volume” avevo fatto l’inviata in un programma di Rai2 che si chiamava “Mixer Cultura”, lo faceva Arnaldo Bagnasco, un giornalista che è mancato qualche anno fa, e credo che fu così che Minoli chiese a Riotta “C’è qualcuno dei tuoi redattori che mi può fare da inviato su cose tipo la scuola, i libri?” e lui disse “secondo me la Bignardi potrebbe farlo”… Minoli mi chiamò e fece un provino a Roma, quindi ho fatto l’inviato per un anno per questo programma, lì mi videro da Canale 5 e mi chiesero di fare “A tutto volume”… e io nel frattempo continuavo a collaborare con Panorama, con La Stampa, con Sette, con tutti i giornali che potevo e che riuscivo…

In “A tutto volume” si andava a registrare sempre in esterni, quindi era impegnativa, perché io facevo i lanci, che sono quella cosa terribile che non sei in diretta, ma tu hai un testo e dici “allora questa settimana parliamo de ‘Il senso di Smilla per la neve’…” ancora mi ricordo la classifica degli anni, perché “A tutto volume” era la classifica dei libri, quindi mi ricordo il libro di Giovanni Paolo, e “Il Senso di Smilla per la neve”… quindi metti che andavo sul Monte Bianco per il lancio di “Il Senso di Smilla per la neve”, andavo sotto la pioggia del giro d’Italia per un altro libro… Quindi in realtà era un programma molto impegnativo, perché lo giravi in esterni, poi veniva montato e alla fine andava in onda, però mi prendeva parecchio tempo.

È stata una cosa molto faticosa, perché io il primo anno non ero autore e lì ho sofferto come un cane, perché io non ho grandi doti di spettacolo quindi io so dire solo le cose che mi scrivo io, è stata una sofferenza, però mi è servito, anche lì ho imparato qualcosa… Intanto, sai, il battesimo della telecamera: la telecamera è un mostro, le prime volte io dovevo bere una grappa per andare in video… Già l’inviato è più facile. La cosa difficile è quando devi fare i lanci, dire un testo, perché quello son bravi gli attori a farlo, ma non i giornalisti…

Quando si va inviati in posti assurdi e magari piove, cosa ti porti? Il pocket coffee, l’imodium, la camomilla?

Be’ io sono stata a Sarajevo, sai, alla fine della guerra, e lì avevo il giubbotto antiproiettile… Mi ricordo che l’unica cosa che si trovava nei bar era il caffè col whisky, una cosa che non ho più trovato ed era buonissima… C’era un bar che funzionava e l’unica cosa che davano in questo bar era questo caffè di cui ora non ricordo il nome, con il whisky e la panna…

Ah, ma l’irish coffee. E invece la prima trasmissione lunga che hai fatto è stata “Tempi moderni”?

Sì, “Tempi moderni” la scrivevo io, quindi è stata la prima cosa mia…

Ed è venuta a te l’idea?

No, l’idea è venuta a Giorgio Gori, che era direttore di Canale 5 e voleva fare un talkshow di costume, voleva che lo facesse una giornalista, ne abbiamo parlato… Io nella prima puntata invitai, era il ’98, nove coppie gay, e ricordo ancora di tutti il nome, il cognome, cosa facevano, cosa che adesso non sarei più in grado… avere diciotto ospiti di cui so tutto, l’età, la storia, la vita… Era proprio una cosa viva. Sai, in quegli anni lì la società stava cambiando, non so dirti come, ma stava cambiando molto velocemente e io raccontavo queste cose che adesso sono banali e normali, come le persone tatuate o con il piercing…

E quando facevi queste puntate, non andavi in paranoia per tua madre missina?

No, ma mia madre si divertiva… Cioè, lei era sempre contraria, però non perdeva una puntata, si divertiva, sai non è che facessi nulla di spregiudicato. Erano tutte storie di persone normali, che però erano spesso persone che avevano fatto scelte estreme… Ricordo un animalista ante litteram che non uccideva le zanzare e diceva “io voglio bene alle zanzarine”, erano ovviamente tutti personaggi che facevano discutere…

Ma non ricordo bene, era trash o no? C’era quell’elemento o no?

C’era ma in maniera, mi permetto di dire, elegante (ride)…

Siamo arrivati al “Grande Fratello”.

All’inizio quando Giorgio Gori mi chiese se facevo il “Grande Fratello” non sapevo neanche cosa fosse ed ero intenzionata a non farlo. Giorgio mi disse che voleva una giornalista, mi disse questo “guarda è una materia incandescente, tu sei bravissima a raffreddare le cose” che è una mia particolarità: a volte i televisivi scaldano, io invece raffreddo, è una cosa che mi viene istintiva, però io non ero per niente convinta, infatti mi ricordo che io ero al mare con mio figlio piccolo e venne una delegazione composta da Gori, Bassetti, Rondolino. Arrivarono una sera in Sardegna, poveracci, vomitando, perché io stavo in un posto lontanissimo da tutto, loro presero un aereo per Olbia e arrivarono la sera tutti vomitanti…

Quale fu la tua reazione? Il fatto che si chiamava “Grande Fratello” non ti diceva niente?

Ma sai, io alle volte sono un po’ distratta Sai dopo come pensai che poteva essere interessante? Con un editoriale di Scalfari su Repubblica che diceva “Arriva il demonio, il Grande Fratello”… Mi fece un po’ da traghettatore, Scalfari, perché comunque parlava un linguaggio che io conoscevo e mi dissi “be’, demonio? Interessante!” e quindi poi accettai…

Be’ una trasmissione diabolica… Tu sei stata la prima a fare questa cosa: sei stata la madre di questo atteggiamento empatico ma anche crudele… con questi chiusi là dentro…

…che tu poi li devi guidare, li devi contenere…

Com’erano prima e come dopo?

Guarda, nel primo “Grande Fratello” erano identici prima e dopo perché erano dei ragazzi normalissimi, naif… Rocco faceva l’ingegnere, Pietro aveva la passione per i cavalli e anche lui faceva l’università, Salvo era un pizzaiolo…

E come ti guardavano?



Be’ per me parlare con le persone…

La tua cosa qual è? L’empatia?

Non solo l’empatia, anche il capire quanto tu… Io ad esempio so se tu sei televisivo o meno, se tu funzioneresti o no, anche se non te lo dirò. A me basta parlare con te cinque minuti e lo capisco: perché è istinto, è il mio mestiere e lo faccio da tanto tempo. E soprattutto se ti dovessi intervistare in tv io so cosa chiederti che interessi al pubblico…

Fa paura.

Ma sai questo è il mestiere dell’autore televisivo, scannerizzare una persona subito… Questo ha molto a che fare con lo storytelling: cos’è narrare una storia? È sentire qual è il centro di quella storia, da dove puoi iniziare, come potrebbe finire…

E com’è sentire la persona che poi devi usare, diciamo, in video?

Be’ naturalmente quando tu parli con una persona due cose contano: quello che racconta e come te lo racconta. E le due cose sono necessarie perché poi funzioni e quello che tu hai visto in quella persona lui riesca a raccontarlo agli altri. Io sono una specie di medium tra te, ad esempio, e il pubblico televisivo, io traduco quello che tu hai da dire e aiuto chi sta a casa a capire in fretta. Metti che io ho dieci minuti per presentarti, io in quei dieci minuti devo far uscire la tua cosa più peculiare, più autentica, più interessante.

Ti senti mai un po’ manipolatrice?

No, perché io rispetto moltissimo le persone che incontro. Io ad esempio non inviterei mai una persona troppo debole, che non ha i mezzi o che potrebbe fare una brutta figura. Mi è capitato naturalmente perché sai, a “Le Invasioni Barbariche” avrò avuto mille ospiti, però è successo una sola volta che non avevo capito… non ti posso dire chi, era una donna… non avevo capito che era una persona un po’ labile e che non era in condizioni di affrontare una diretta televisiva. Sennò io invito solo persone che hanno le spalle abbastanza larghe…

Quindi anche quando sembra che le persone a “Le Invasioni” stiano facendo figure di merda tu pensi che loro le possano sopportare?

Sì. So dove posso arrivare, conosco il gioco e le regole del gioco ed è un gioco di rispetto… non prenderei mai la madre del suicida, non userei mai una persona al di là di quello che ti vuole dire, io ti posso aiutare a dire le cose che vuoi dire…

Quand’è che questa cosa è diventata attiva? Che hai detto “ok, da adesso guardo tutti, li scannerizzo”?

Questa cosa io l’ho sempre avuta, ce l’avevo anche a sei anni, questa è la voce dell’autore, del narratore, ce l’ho sempre avuta. Così come guardavo la mia famiglia. In Non vi lascerò orfani io racconto la mia famiglia come se fosse su un set… Tu sai benissimo che quando tu vai alle elementari c’è quello che sa beccare il tic degli insegnanti, la frase che racconta il più bravo, la più bella… questa è una voglia, un talento che hai subito…

Com’era stare in mezzo al casino del “Grande Fratello”? C’era la gente di fuori, le macchine che arrivavano…

Guarda, era molto strano per me perché io non c’entravo veramente niente. Ma non pensare che questa sia una riflessione snob, è che proprio non faceva parte della mia vita. Intanto io andavo a Roma a fare questo programma, a Cinecittà, che era un posto che non conoscevo, dove non avevo amici… Stavo in un residence, a Via Madonna de’ Monti, infatti il mio unico amico di quel periodo è stato l’autista, che si chiama Giovanni e tutt’ora è un mio carissimo amico, e lui quando finivo mi portava a mangiare il panino con la mortadella, la pizza…

Andavo credo il mercoledì mattina a Roma, il mercoledì pomeriggio avevamo le prove e il giovedì mi preparavo, la sera andavo in diretta e il venerdì mattina tornavo a Milano. Stavo due notti a Roma. Il venerdì poi leggevo i giornali in un bar a Via Cavour e c’erano tre, quattro pagine sul “Grande Fratello” e a me sembrava che fosse un’altra persona, non io…

Già il secondo anno non ce la potevo più fare, infatti mi prendevano in giro e mi dicevano che lo facevo per telefono… No, perché il primo anno comunque c’era la curiosità, ma io comunque non c’entravo niente. Il mio rapporto con la televisione è mediato dall’essere un autore, mentre lì c’era un format quindi io potevo mettere un po’ di mio, ma ben poco, ci mettevo tutto quello che mi veniva ma…

Chi aveva fatto la tua imitazione al “Grande Fratello”? La Cortellesi?

Sì, la prima è stata Paola, che mi faceva sadica…

E com’era avere una persona che ti faceva il verso?



Non te lo so dire, ma poi non solo lei, c’era anche la Gabriella Germani al Bagaglino. Io sono un po’ il contrario del narciso, ho un filo di autolesionismo, e quindi non era una cosa che mi facesse piacere, la guardavo con distacco…

Tu sei stata la prima persona a dire “nomination” praticamente. C’è tutto un linguaggio nato quell’anno: “confessionale”, “nomination”, “la casa”…

Sì, io poi sono emiliana quindi dicevo “la caasha”…

Ah, allora parliamo del tuo format, de “Le Inviasioni Barbariche” e de “L’era glaciale”. Di chi è?

Mio, ma non è un format: sono quattro interviste una dietro l’altra! Non è che sia questa grande idea, ora ti racconto l’iter, ma devi capire che le cose spesso succedono per casa, poi puoi pensare che il caso, come dice Flaiano, è Dio in incognito, e che nulla è un caso, però le cose si creano facendole. Nella prima puntata de “Le invasioni Barbariche” c’era una intervista e quattro lunghi servizi, s’è capito subito che la cosa che io facevo meglio erano le interviste, la cosa che funzionava di più erano le interviste e quindi già nella seconda stagione le interviste sono tre, adesso le interviste sono cinque.

Io in realtà tutta la preparazione la feci creando questi servizi che poi dovevano essere discussi in studio, l’idea era: lunghi servizi di otto, nove minuti… Il primo era sui giovani novizi che iniziavano il noviziato, perché era l’anno di Giovanni Paolo e quindi si parlava solo di quello, il servizio era meraviglioso, ho fatto una settimana nei conventi, nei seminari e questi seminaristi erano meravigliosi… Io ho passato, non so, due settimane a montare questa cosa in otto minuti… allora, un servizio di otto minuti sui seminaristi, su La7, nel 2005, avrà fatto lo 0,3, mentre per l’intervista, io chiesi a Gori di sostituire Diego Della Valle all’ultimo, perché era l’unico, diciamo VIP, che conoscevo, gli chiesi questo favore e lui accettò… Poi, un po’ alla volta, son rimaste solo le interviste…

Mentre la tua inquadratura chi l’ha pensata?



È del regista, col carrello, è fatta molto lentamente…

E tu che fai la furba…



Io non faccio la furba, io sto normale, sono anti televisiva, sto gobba… però sai, sto seduta.

Come sei arrivata a La7?

Io venivo da dieci anni di Mediaset. Loro ci tenevano che continuassi a fare questi reality, però io fuggii praticamente. Feci la seconda figlia. Praticamente quello fu anche comodo per non fare il “Grande Fratello 3” e poi, mentre ero incinta di Emilia, diressi “Donna” che era questo mensile di Hachette… Fu molto bello, tu forse non lo avrai mai visto, ma era un mensile pieno di contenuti, dovrei farti vedere un numero, era pieno di idee, di rubriche belle.

Come fu ritrovarsi a fare il giornale dopo tutta questa tv?

Bello, molto bello. Sai, facevo il direttore, quindi facevo quello che avevo sempre fatto: decidere i contenuti e realizzarli. Insomma, mi son detta che dovevo uscire da questa storia dei reality con cui non c’entravo niente e il mio agente, che me lo diceva da anni, mi dice “vuoi andare a La7?”, anzi, mi volevano per “Otto e mezzo”, vedi perché le cose succedono per caso, perché la mia porta per entrare a La7 era “Otto e mezzo” e Giuliano… non mi ricordo chi c’era prima… Comunque feci questo contratto per stare tre anni a La7 a “Otto e mezzo”, però alla fine io non me la sentii di andare a Roma, avevo la figlia piccola, l’altro figlio che andava alle elementari e quindi dissi al direttore “senti dai facciamo un altro programma, non ce la faccio a fare un quotidiano a Roma, ho i figli piccoli, non ce la posso fare” e lui mi disse “va bene, facciamo una prima serata, cosa vorresti fare?” io gli scrissi il progetto per “Le Invasioni Barbariche”.

Quali sono le caratteristiche stilistiche che definiscono “Le Invasioni Barbariche”?

Allora, sono in diretta sempre e quindi succede sempre qualcosa. È tutto molto artigianale, reale. Guarda, io i primi anni non avevo mai visto gli intervistati finché non arrivavano, poi essendo in diretta, il secondo, il terzo, il quarto, non li vedevo mai, fino al momento in cui entravano…

Quindi secondo te si crea un’intimità là davanti, così?



Be’ sì, si crea qualcosa, nel bene o nel male, può essere simpatia, può essere antipatia, può essere curiosità…

Ma quindi c’è gente famosa, che tu conosci da anni, che hai visto solo in quel momento…

Ma io non reputo di conoscerli, tu questo lo dici perché non lavori in tv, questo è il mio mestiere, non è che se io intervistato Raoul Bova conosco Raoul Bova. In quel momento io non sono io, sto facendo un mestiere dove c’è qualcosa che io so fare, però l’incontro è un’altra cosa, in un incontro tu sei indifeso, non hai le strutture, non hai le difese.

Quindi lì non c’è nessuna intimità?

Ma no, sei in diretta, in televisione, io sto lavorando, ho la responsabilità di quello che sta succedendo, devo proteggere te, non fare errori, fare una cosa divertente, fare una cosa informata, parlare delle cose di cui la gente è curiosa, ti pare che ho il tempo e la voglia di cazzeggiare? (ride)

E ti distrai mai dalle risposte? Ti è capitato?

Se sono molto noiose sì…

E come fai a rientrarci dentro?



Sorrido molto. Quando tu mi vedi sorridere molto, ridere molto, vuol dire che dentro di me sto pensando a come uscirne…