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 2014  aprile 29 Martedì calendario

BRASILE, DISILLUSIONE MUNDIAL

A un mese e mezzo dalla Coppa del mondo di calcio, le favelas di Rio de Janeiro, anzi quelle di Ipanema e Copacabana che possono essere considerate l’élites delle favelas, esplodono; l’economia cresce solo dello 0,7% (il governo applaude perché comunque è il doppio delle attese) e Dilma Rousseff, che il 5 ottobre corre per un secondo mandato, sembra imprigionata da una catena di guai che solo il carisma di Lula avrebbe potuto risolvere. Si sapeva che “a Presidenta” non poteva essere a livello del proprio mentore; la saggezza proletaria dell’ex sindacalista Luiz Inácio da Silva è una dote che non si acquisisce facilmente, ma il paragone la colloca al di sotto di ogni ragionevole attesa. I sondaggi fotografano impietosi la caduta della economista che proprio sull’economia ha trovato ostacoli insormontabili, anche se una opposizione divisa e anch’essa poco credibile offre a Dilma un vantaggio immeritato. Cosa sta accadendo al gigante del Sud America, eterno Paese "Paese del futuro" che, come un tempo si diceva del socialismo, è sempre all’orizzonte?
Due parabole, in senso geometrico ma anche un po’ biblico, possono aiutarci a capire: una riguarda le favelas, l’altra è quella di un campione del nuovo Brasile, Eike Batista il magnate che tanto si è speso e ha speso per portare nel suo Paese la Coppa. Proprio da lui, il paradigma dei nuovi potenti, il sogno della ruggente classe media, vogliamo cominciare.
Nel 2012, secondo la classifica di Bloomberg, Batista era il settimo uomo più ricco al mondo, con un patrimonio stimato in trenta miliardi di dollari; nel luglio 2013 valeva appena 200 milioni, nel gennaio scorso era già sceso sotto zero. Una catastrofe clamorosa che non sembrava affatto annunciata. Eike è per così dire figlio d’arte. Suo padre Eliezer Batista da Silva, ex ministro delle miniere e amministratore della Companhia Vale do Rio Doce, colosso minerario di Stato, gli ha garantito i contatti e l’esperienza, oltre ai cospicui assegni che hanno consentito al più piccolo dei sette figli una jeunesse dorée in Europa. Terminati gli studi di metallurgia in Germania, patria di sua madre Jutta Fuhrken, Eike torna in patria, si butta nelle miniere d’oro e d’argento, sposa una modella, accumula quattrini a palate, poi si lancia anche nell’acciaio e in tutto ciò che dalla viscere della terra può generale valore.
Tutto gli va bene, grazie al fiuto, alla fortuna e ai legami in quella che un tempo si chiamava la borghesia compradora, che in Brasile contano forse ancor più che altrove. Finché non incontra la maledizione dell’oro nero. Batista scommette su mirabolanti riserve di petrolio al largo di Rio, ma dopo mesi di ricerche la bonanza promessa non si materializza, la sua compagnia Ogx crolla in borsa trascinando con sé l’intero patrimonio. Il magnate è stato aiutato da Petrobras, ma il colosso petrolifero pubblico, rimasto scottato, ritira ogni real investito. Nessuno lo sostiene più, le banche vogliono indietro i prestiti e pretendono di rivalersi sul patrimonio. Così, in pochi mesi ricchezza e potere si volatilizzano.
La caduta di Eike dipende dai propri errori, ma non solo. Abbondanti riserve di petrolio tra Rio e San Paolo esistono davvero, tante da poter spingere il Brasile a sorpassare il Venezuela e diventare una potenza alla stregua dell’Arabia Saudita. In futuro, perché anche questa è un’altra speranza tutta da verificare. Petrobras ha bisogno di tecnologie che non possiede, ma la legge brasiliana impone alle compagnie straniere lacci e lacciuoli che diventano catene quando la congiuntura peggiora. Tirar fuori il greggio dalle acque costa moltissimo ed è diventato ancor meno vantaggioso da quando il governo ha imposto un calmiere ai prezzi del carburante nel tentativo di mettere sotto controllo l’inflazione che s’aggira sul 6 per cento.
Ancora una volta, misure amministrative si rivelano disastrose e inutili. Tanto che la banca centrale, ai primi di aprile, ha estratto dal cassetto l’attrezzo sempre efficace, la stretta monetaria. I tassi di interesse vengono portati all’11%, gettando un’ombra sulla campagna elettorale e mettendo in seria difficoltà una economia che crescerà poco più dell’un per cento secondo le ultime previsioni per l’anno in corso. Se si aggiunge il rallentamento della domanda cinese, si può avere idea di quanto sarà difficile far uscire il Paese da uno stato di frustrante stagflazione. «Il 2015 è l’anno del grande aggiustamento», ha spiegato alla Reuters Marcelo Salomon l’economista che segue il Brasile per la banca Barclays, «forse si riuscirà a evitare una vera recessione, ma sarà in ogni caso un altro anno perduto per la crescita».
Aggiustamento è un eufemismo per esprimere una vera e propria frenata anche dal lato del bilancio pubblico. Il disavanzo viaggia al 4% annuo, una percentuale non eccessiva, ma tale da appesantire un debito pubblico rispetto al Pil del 65% considerato preoccupante tanto da spingere le agenzie di rating a suonare un campanello d’allarme: Standard & Poor’s ha abbassato la valutazione a BBB quindi a un passo dai junk bonds, i titoli spazzatura. Dilma non ha intenzione di imporre tagli pesanti alla spesa prima delle elezioni, ma la stessa Coppa del mondo si sta rivelando deludente, il suo impatto sulla crescita è modesto (si calcola non superiore allo 0,4%) mentre pesa e come sul bilancio federale.
Austerità, dunque, sia pure in versione basileira non greca. Ma sufficiente ad allargare la forbice sociale e rallentare gli investimenti dei quali il Paese ha un enorme bisogno per trasformare le speranze in realtà. E questo ci porta dalla parabola di Batista a quella delle favelas. Perché anche in questo caso ci troviamo di fronte a una grande delusione, a speranze tradite, a rabbia generata dalla frustrazione.
Era stato Lula nel 2009 a mettere sotto controllo severo le baraccopoli, fonte mefitica della microcriminalità e terreno di coltura di una malavita molto più forte e pericolosa che trae alimento dalla droga. Spacciatori di ogni tipo e caratura sono la manovalanza per il grande commercio. Rio è una metropoli in cui miseria e nobiltà convivono spalla a spalla. Immediatamente a ridosso delle due spiagge più famose, Copacabana e Ipanema, arrampicate sulle verdeggianti e ripide colline sorgono le favelas dove si mescolano povertà dignitosa e degradazione umana.
I posti di blocco della Upp (Unità di polizia pacificatrice), che alcuni, soprattutto nell’Europa venusiana, avevano considerato alla stregua di una giro di vite repressivo da stato totalitario o un paravento per farsi belli davanti ai turisti, erano stati presi da molti abitanti delle bidonville come un sollievo, nel tentativo di sottrarre il controllo territorio ai gruppi violenti e ben armati di malavitosi legati ai signori della droga. Sono loro a dettare legge, a decidere se, dove e come mandare a lavorare gli uomini e le donne (per lo più a compiere mansioni servili nei quartieri ricchi) riscuotendo il pizzo, imponendo la loro legge con minacce e violenze. Per un po’, la presenza dei poliziotti è servita ad allentare la pressione. Ma con il passare del tempo e con il peggiorare della situazione economica, s’è trasformata in un boomerang.
L’ultima scintilla è scoppiata per il misterioso decesso di Douglas Rafael da Silva Pereira, conosciuto come DG, 25 anni, ballerino di un noto programma televisivo. Amici e parenti della vittima sono convinti che sia stato picchiato a morte dalla polizia, che lo avrebbe scambiato per un trafficante in fuga. La protesta di residenti dell’agglomerato di “favelas” Pavao-Pavaozinho e Cantagalo, dove il giovane abitava, è presto degenerata in violenza all’arrivo del battaglione antisommossa delle forze dell’ordine. Importanti vie di Copacabana, come l’Avenida Nossa Senhora de Copacabana, la Rua Raul Pompeia e il tunnel Sa Freire Alvim, sono state bloccate con barricate di fuoco da parte della popolazione furibonda.
Durante gli incidenti, un uomo di 30 anni, Edilson da Silva dos Santos, è rimasto ucciso da un proiettile che lo ha raggiunto alla testa. Secondo le autorità locali, in quel momento si sarebbe verificata una sparatoria tra militari e narcos. Per alcuni media, anche un bambino di 12 anni è rimasto ferito, finendo nel fuoco incrociato, mentre scendeva da un vicolo dello slum con le mani alzate. I disordini si sono poi estesi al confinante quartiere di Ipanema, dove ci sarebbero stati vari saccheggi, causando il panico tra la gente. Anche la sede dell’Upp di Pavao- Pavaozinho e Cantagalo (una delle 39 installate a Rio) è stata attaccata da sconosciuti, mentre alcuni agenti sarebbero stati attorniati e minacciati da persone inferocite. Il governo si vede costretto a fare un ricorso massiccio all’esercito, mettendo in stato d’assedio Rio e, forse, la stessa San Paolo.
La ricaduta politica può diventare disastrosa per Dilma che in poco più di un mese ha perso il 6% dei consensi. Un sondaggio attribuisce alla presidente brasiliana e al partito laburista il 38% delle preferenze (a fine febbraio era 44%), ma il candidato socialdemocratico Aecio Neves si mantiene al 16% e il socialista Eduardo Campos è aumentato di un solo punto, raggiungendo il 10%. «A prescindere da chi vincerà le elezioni, sarà un anno difficile molto più di quel che si dice pubblicamente», spiega Fernando Henrique Cardoso, presidente dal 1995 al 2003, leader dell’opposizione e padre riconosciuto (forse più all’estero che in patria) della rinascita brasiliana.
Le analisi retrospettive indicano che i semi della crisi attuale sono stati gettati proprio durante il boom che dalla metà degli anni ’90 ha portato 35 milioni di persone fuori dalla fame e dalla miseria. Il Paese si è legato a doppio filo alla Cina diventando il grande fornitore di soia e ferro. L’export ha fatto da traino, ma i brasiliani sono stati abili nello sfruttare il grande motore cinese. A differenza dall’Argentina, il Brasile ha svalutato in tempo il real nel 1999 evitando una crisi catastrofica. Il prezzo pagato si chiama inflazione, malattia endemica, gestibile finché l’economa reale consente di spalmare latte e miele su una fetta sempre più ampia di popolazione. Il sistema pensionistico che permette di ritirarsi a 54 anni con il 70% dell’ultimo stipendio, rappresenta l’emblema di un welfare sostenibile solo grazie alla demografia (l’età media è di 32 anni) e a una crescita in grado di creare ogni anno più reddito e più occupazione. Proprio questo equilibrio oggi viene rimesso in discussione.
Le liberalizzazioni, sia pur parziali, di Cardoso e l’abile politica sociale di Lula, sembravano aver trovato la chiave per sfruttare al meglio la domanda cinese, ma «abbiamo costruito troppe auto negli anni del boom e non abbiamo fatto abbastanza strade»: è questa la metafora più in voga tra gli economisti brasiliani. Le infrastrutture mancano davvero (lo stock è pari al 15% del pil rispetto al 71% medio nelle grandi economie) e per esse lo stato spende solo l’1,5 % del pil (la media internazionale è del 3,8). È ovvio, però, che la battuta ha un senso più generale.
Prendiamo l’infrastruttura principe, la politica. Nonostante le continue purghe che hanno coinvolto esponenti di primo piano anche nel governo, la corruzione è consustanziale in quanto si fonda sulla centralità perversa di una politica basata sullo scambio di favori. Nulla accade se non si passa per il cacicco di turno. La prima tappa di ogni uomo d’affari straniero è a Brasilia per baciare la pantofola al ministro o nel palazzo del governatore di uno dei 26 stati, come ho constatato di persona. Il signoraggio politico pesa sulle società statali e su quelle private, sulle multinazionali ma anche sulle imprese domestiche.
Né la gestione liberale di Cardoso né quella socialista di Lula hanno spezzato il modello sudamericano, basato su una grandezza pomposa e inefficiente, con una oligarchia ad un tempo populista e chiusa in se stessa, che si scambia posti di comando al governo e nelle aziende. Questo sistema di governance (direbbero i McKinsey boys) resta il principale ostacolo affinché l’eterna promessa diventi realtà. Un anno fa, alla viglia della Continental cup, si è presentata una congiuntura molto simile a quella attuale: bassa crescita, conflittualità politica, rivolta nelle favelas. «Dilma deve cambiare rotta», ammoniva allora l’Economist. A Presidenta non l’ha fatto sperando nella manna del Mundial. E, come per i cittadini di Hadleybourg raccontati da Mark Twain, l’improvvisa ricchezza s’è trasformata in condanna.