Michele Ainis, Corriere della Sera 29/4/2014, 29 aprile 2014
GLI STIPENDI E IL MERCATO
Il nostro premier ha bisogno d’un ombrello. In questi giorni gli stanno piovendo sulla testa scomuniche e anatemi, è a rischio di bernoccolo. Mittenti: manager pubblici, vertici militari, alti magistrati, authority . La crema dello Stato, cui il decreto Irpef ha ridotto gli stipendi: adesso il tetto è 240 mila euro, pari all’indennità del presidente della Repubblica. E vale per tutti, senza eccezioni. Ma l’eccezione è quel decreto: l’unico precedente risale a Mussolini, che nel maggio 1927 tagliò del 10% le retribuzioni dei dipendenti pubblici. Tuttavia quella volta ci andarono di mezzo i soldatini, stavolta i generali.
D’altronde, in tempi di vacche magre, nessuno accetta il pascolo d’alcune vacche grasse. E semmai resta da chiedersi come sia potuto accadere, quale demone sindacale abbia permesso (per esempio) che il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica percepisse 460 mila euro, dieci volte rispetto al ministro della Difesa (che è il suo diretto superiore), il doppio rispetto al capo dello Stato (che ha il comando delle Forze armate). Avevamo perso la misura, insieme alla decenza. Viceversa nel 1985 Sandro Pertini rifiutò un aumento di 100 milioni, stabilito dal governo Craxi. Altri tempi, altre tempre.
Piuttosto, un nodo problematico riguarda i magistrati. Per una ragione di principio, non di portafoglio. Se il governo può sforbiciarne gli stipendi, significa che può anche minacciarli di ulteriori sforbiciate, ledendone così l’indi-pendenza, esponendoli a ritorsioni per questo o quel verdetto. Non a caso la Costituzione americana (articolo III, sezione 1) vieta di diminuire il trattamento economico dei giudici, finché restano in carica. Nei loro confronti, così come nei confronti delle authority di garanzia, sarebbe stato meglio applicare la decurtazione ai nuovi arrivati, non ai vecchi. Per non creare un cattivo precedente, sia pure animato dalle migliori intenzioni.
Ma dopotutto questo non è che un dettaglio. Il tema generale è l’eguaglianza: quale, quanta, per chi, come. Ed è un tema formidabile, nel Paese più disuguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. In Italia l’1% della popolazione detiene il 10% del reddito nazionale; era il 7% nel 1980. Mentre la ricchezza di 10 miliardari equivale al patrimonio di 3 milioni d’italiani poveri. Ma nel settore privato valgono pur sempre (e meno male) le leggi di mercato. E infatti gli svizzeri, a novembre, hanno saggiamente bocciato un referendum sui limiti allo stipendio dei top manager : le multinazionali sarebbero fuggite in massa, procurando un impoverimento complessivo. Ma quando la partita si gioca fra le mura della cittadella pubblica?
Ecco, qui emergono gli effetti dirompenti di quest’ultimo decreto. Perché l’eguaglianza è come uno specchio: se lo rompi, andrà in mille frantumi. E nell’amministrazione pubblica non s’incontrano mai due mansioni identiche pagate nell’identica misura: se sei un dipendente regionale incassi più dei dipendenti comunali, e magari meno di chi ha una stanza al ministero. Per ricomporre i cocci, si può agire in due direzioni: ripristinando l’eguaglianza verso l’alto o verso il basso. Noi, fin qui, abbiamo sempre seguito la prima direzione. Una categoria strappa un benefit di Stato, le altre categorie seguono a ruota. Risultato? Conti in rosso, privilegi in nero.