Giancarlo Galli, Avvenire 29/4/2014, 29 aprile 2014
QUELLE MOSSE FRANCESI SUL MADE IN ITALY OMBRE DEL COLONIALISMO
C’è «troppa Francia» in Italia, comincia a sostenere più di un osservatore, ed è difficile dargli torto. Tanto più adesso, che la vicenda Alstom rischia di innescare un risiko nel settore dell’industria, i cui sviluppi europei verranno chiariti nelle prossime settimane. I rapporti economico-finanziari fra Roma e Parigi, «sorelle latine», sono di antica e solida durata. Con i transalpini nei panni dei «Maestri». Basterà ricordare come la creazione della Borsa di Milano, nel 1806, fu voluta da Napoleone Bonaparte, ricalcando gli statuti di quella parigina, fiorentissima ed in concorrenza con la city londinese. Successivamente, il conte Camillo Benso di Cavour là trovò i soldi che consentirono al piccolo Regno di Sardegna di realizzare l’unificazione della penisola.
«Entente» al tempo stesso cordiale, benefica e «interessata», insomma. Nel senso (politico) che da due secoli l’establishment francese considera la penisola «area d’influenza », per sottrarla alla tentazione di affidare il proprio sviluppo ai concorrenti tedeschi, fondatori sul finire dell’Ottocento, della Banca Commerciale e del Credito Italiano. Se nel ventennio fascista la tradizione s’incrinò, essa recuperò slancio nell’immediato dopoguerra. Enrico Cuccia, mitico fondatore nell’aprile 1946 di Mediobanca, ottenne il pieno sostegno della potentissima Banque Lazard che gli affiancò, discreto eppur onnipotente, il misterioso André Meyer. Banchiere che, detto nel gergo degli gnomi, «triangolava» fra Parigi-New York-Milano. E Mediobanca fu la madrina del miracolo economico che ci portò da nazione sottosviluppata a quinta potenza industriale dell’Occidente.
L’uscita dalla scena terrena di Meyer e poi di Cuccia, soprattutto il costante declino di Parigi a vantaggio di Berlino dopo la riunificazione tedesca, parevano avere incrinato i secolari legami. Già anticipati da controversi episodi nello scacchiere dell’alta finanza: i mancati tentativi di acquisizione del controllo di Axa da parte delle nostre assicurazioni Generali e della Societé Generale operato da Carlo De Benedetti. Schermaglie o i prodromi di un divorzio fra Italia e Francia?
Le «ragioni della storia» hanno tuttavia prevalso. Il primo a comprenderlo è stato indubbiamente Giovanni Bazoli, dominus di Intesa-San Paolo. Ereditato negli Anni ’80 l’ex Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, di fronte a minacce di scalate ostili, trovò un alleato nel Crèdit Agricole. L’inizialmente più che fattiva collaborazione (conclusasi con separazione consensuale), ebbe un risultato: recuperare le tradizionali relazioni francoitaliane. Bazoli, detto per inciso, fu insignito della Legion d’onore.
Nel frattempo, pur fra inevitabili bracci di ferro, incomprensioni spesso sbarcate nelle aule giudiziarie, altri segnali: Bnl che entra nell’orbita di Paribas, Antoine Bernheim alla presidenza delle Generali, il finanziere bretone Vincent Bolloré in un ventaglio di consigli d’amministrazione.
Infine, la Parmalat passata alla Lactalis dopo il crac di Calisto Tanzi. Tanti esempi, unica la direttrice: la presenza dei capitali francesi nei nostri gangli dell’economia, pur fra alti e bassi nell’interminabile valzer di poltrone e pacchetti azionari, sembra riprendere consistenza. Rari per il momento, i segnali contrari, se si eccettua il consolidamento di Italcementi sui mercati europei, peraltro bilanciato dal passaggio di Edison ad Electricité de France. Senza trascurare l’apertura o l’acquisizione di grandi empori nei settori dell’alimentare, dell’abbigliamento, dei cosmetici.
Purtroppo, alla pacifica invasione dei cugini transalpini, ne sta seguendo un’altra, strisciante ed oscura, dai contorni tutti da decifrare. Partiamo dal settore della moda, fiore all’occhiello del made in Italy. Dopo l’acquisizione del celeberrimo gruppo Loro Piana, leader nella produzione di tessuti in cachemire da parte della parigina Lvmh di Antoine Arnault, si confidava nella riscossa dei nostri stilisti. Invece sono piovute a raffica notizie che fanno tremare le vene dei polsi.
Certo, con la crisi, le banche nostrane hanno stretto i cordoni, ma i problemi del sistema creditizio non dovrebbero pregiudicare il rilancio di aziende e marchi di cui il Paese è giustamente fiero. O c’è forse, sperando di venire smentiti, una serpeggiante rinuncia ad osare? Dubbio alimentato da altre vicende, come quelle di Finmeccanica, Lucchini e Ilva. Ciliegina sulla torta piuttosto amara: l’Alitalia, non più sostenuta proprio da Air France, é in trattativa con gli emiri del Golfo Persico.
Insistere sul tema, pur vero, che i francesi fanno shopping nelle nostre aziende, risponde dunque solo parzialmente alla realtà. Ben più cruda: non invertendo la rotta, il pericolo di deindustrializzazione- colonizzazione sta divenendo reale.