Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 29 Martedì calendario

QUELLE MOSSE FRANCESI SUL MADE IN ITALY OMBRE DEL COLONIALISMO

C’è «troppa Francia» in Italia, co­mincia a sostenere più di un osservatore, ed è difficile dar­gli torto. Tanto più adesso, che la vicen­da Alstom rischia di innescare un risiko nel settore dell’industria, i cui sviluppi europei verranno chiariti nelle prossi­me settimane. I rapporti economico-finanziari fra Ro­ma e Parigi, «sorelle latine», sono di an­tica e solida durata. Con i transalpini nei panni dei «Maestri». Basterà ricordare come la creazione della Borsa di Milano, nel 1806, fu voluta da Napoleone Bona­parte, ricalcando gli statuti di quella pa­rigina, fiorentissima ed in concorrenza con la city londinese. Successivamente, il conte Camillo Benso di Cavour là trovò i soldi che consentirono al piccolo Regno di Sardegna di realizzare l’unificazione della penisola.
«Entente» al tempo stesso cordiale, benefi­ca e «interessata», in­somma. Nel senso (politico) che da due secoli l’establishment francese considera la penisola «area d’in­fluenza », per sottrarla alla tentazione di affidare il proprio svilup­po ai concorrenti te­deschi, fondatori sul fi­nire dell’Ottocento, della Banca Commerciale e del Credito Italiano. Se nel ventennio fascista la tra­dizione s’incrinò, essa recuperò slancio nell’immediato dopoguerra. Enrico Cuc­cia, mitico fondatore nell’aprile 1946 di Mediobanca, ottenne il pieno sostegno della potentissima Banque Lazard che gli affiancò, discreto eppur onnipoten­te, il misterioso André Meyer. Banchie­re che, detto nel gergo degli gnomi, «triangolava» fra Parigi-New York-Mila­no. E Mediobanca fu la madrina del mi­racolo economico che ci portò da nazione sottosviluppata a quinta potenza industriale dell’Occidente.
L’uscita dalla scena terrena di Meyer e poi di Cuccia, soprattutto il costante de­clino di Parigi a vantaggio di Berlino do­po la riunificazione tedesca, parevano avere incrinato i secolari legami. Già an­ticipati da controversi episodi nello scacchiere dell’alta finanza: i mancati tentativi di acquisizione del controllo di Axa da parte delle nostre assicura­zioni Generali e della Societé Generale operato da Carlo De Benedetti. Scher­maglie o i prodromi di un divorzio fra Italia e Francia?
Le «ragioni della storia» hanno tuttavia prevalso. Il primo a comprenderlo è sta­to indubbiamente Giovanni Bazoli, do­minus di Intesa-San Paolo. Ereditato ne­gli Anni ’80 l’ex Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, di fronte a minacce di sca­late ostili, trovò un alleato nel Crèdit A­gricole. L’inizialmente più che fattiva col­laborazione (conclusasi con separazio­ne consensuale), ebbe un risultato: re­cuperare le tradizionali relazioni franco­italiane. Bazoli, detto per inciso, fu insi­gnito della Legion d’onore.
Nel frattempo, pur fra inevitabili bracci di ferro, incomprensioni spesso sbarca­te nelle aule giudiziarie, altri segnali: Bnl che entra nell’orbita di Paribas, Antoine Bernheim alla presidenza delle Genera­li, il finanziere bretone Vincent Bolloré in un ventaglio di consigli d’amministra­zione.
Infine, la Parmalat passata alla Lactalis dopo il crac di Calisto Tanzi. Tanti e­sempi, unica la direttrice: la presenza dei capitali francesi nei nostri gangli dell’economia, pur fra alti e bassi nell’inter­minabile valzer di poltrone e pacchetti azionari, sembra riprendere consisten­za. Rari per il momen­to, i segnali contrari, se si eccettua il consoli­damento di Italce­menti sui mercati europei, peraltro bilan­ciato dal passaggio di Edison ad Electricité de France. Senza tra­scurare l’apertura o l’acquisizione di gran­di empori nei settori dell’alimentare, del­l’abbigliamento, dei cosmetici.
Purtroppo, alla pacifica invasione dei cugini transalpini, ne sta seguendo un’altra, strisciante ed oscura, dai contorni tutti da decifrare. Partiamo dal set­tore della moda, fiore all’occhiello del made in Italy. Dopo l’acquisizione del celeberrimo gruppo Loro Piana, leader nella produzione di tessuti in cachemi­re da parte della parigina Lvmh di An­toine Arnault, si confidava nella riscos­sa dei nostri stilisti. Invece sono piovu­te a raffica notizie che fanno tremare le vene dei polsi.
Certo, con la crisi, le banche nostrane hanno stretto i cordoni, ma i problemi del sistema creditizio non dovrebbero pregiudicare il rilancio di aziende e mar­chi di cui il Paese è giustamente fiero. O c’è forse, sperando di venire smentiti, u­na serpeggiante rinuncia ad osare? Dub­bio alimentato da altre vicende, come quelle di Finmeccanica, Lucchini e Ilva. Ciliegina sulla torta piuttosto amara: l’A­litalia, non più sostenuta proprio da Air France, é in trattativa con gli emiri del Golfo Persico.
Insistere sul tema, pur vero, che i fran­cesi fanno shopping nelle nostre a­ziende, risponde dunque solo parzial­mente alla realtà. Ben più cruda: non invertendo la rotta, il pericolo di dein­dustrializzazione- colonizzazione sta di­venendo reale.