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 2014  aprile 26 Sabato calendario

Processo Thyssen [4 articoli] THYSSEN, LA CASSAZIONE: NON CI SARÀ PRESCRIZIONE – I sei manager della Thyssen resteranno condannati per la strage del 2007

Processo Thyssen [4 articoli] THYSSEN, LA CASSAZIONE: NON CI SARÀ PRESCRIZIONE – I sei manager della Thyssen resteranno condannati per la strage del 2007. I giudici della Cassazione: non c’è prescrizione che tenga. E il pm annuncia: chiederemo l’aumento delle pene. Una certezza c’è: i sei manager della Thyssen sono, e resteranno, condannati per la strage del dicembre di sette anni fa nell’acciaieria di Torino. Non c’è prescrizione che tenga. I giudici della Cassazione sono stati chiari: da lì non ci si schioda. Per il resto, neanche dodici ore dopo la sentenza che ha scontentato i parenti delle sette vittime di quel disastro, e fatto tirare qualche sospiro di sollievo agli imputati che già immaginavano un viaggio verso il carcere, è tutto un inseguirsi di ipotesi, di calcoli e controcalcoli, di chi sostiene che la condanna rischia di crescere e chi, invece, giura che no, «a conti fatti sarà minore». Ezio Audisio, l’avvocato di Harald Espenhahn, l’amministratore delegato di Thyssen Italia, il tedesco con lo sguardo duro, anzi durissimo, va molto cauto e dice: «Aspettiamo che vengano depositate le motivazioni della sentenza prima di sbilanciarci. Dobbiamo capire bene la ratio che ha guidato i giudici in questa loro scelta». Dal suo ufficio al quinto piano del palazzo di giustizia di Torino, il pm Raffaele Guariniello, l’uomo delle condanne per i morti di amianto, il padre dell’inchiesta sulla vicenda Stamina e su Davide Vannoni, giura, invece, che è tutto chiaro. Lui che, con i pm Longo e Traverso, aveva concluso le indagini sullo scoppio nell’acciaieria in appena tre mesi, tutto sommato non è dispiaciuto: «È chiaro. Gli imputati devono rispondere separatamente dei reati di omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche e di disastro e incendio. Insomma Roma ha confermato l’impostazione che avevamo dato noi della Procura di Torino». E le condanne? Questione di calcoli. A chiarire un pochettino le idee ci pensa la Suprema corte. Una fonte spiega alle agenzie che «potranno sì aumentare le pene inflitte per ogni singolo reato», ma il collegio della Corte d’appello di Torino che prenderà in carico il nuovo processo «non potrà aumentare, complessivamente, l’entità della condanna rispetto a quella inflitta nel primo giudizio d’appello». E il motivo va cercato in quello che viene definito divieto di «reformatio in peius», cioè la riformoluzione della condanna in peggio, in danno degli imputato. «Ma anche – dicono fonti vicine alla Cassazione – perché non è stato accolto il ricorso della Procura di Torino». Insomma, una questione per giuristi. Ezio Audisio, come da tradizione, sceglie la strada della prudenza. Ma poi commenta: «Da un punto di vista morale questa sentenza ci lascia soddisfatti». Che accadrà? «Leggiamo prima le carte. Magari la Cassazione ha riconosciuto ciò che noi chiedevamo fin dall’inizio, ovvero il concorso di cause esterne. Ecco, anche questo potrebbe avere un peso nel rideterminare la pena». Verso il basso, ovviamente. Guariniello, forte del lavoro fatto in fase di indagine, della montagna di carte che ha messo insieme, del lavoro frutto di un’enorme esperienza in tema di sicurezza sul lavoro, guarda invece al fatto che i togati della Cassazione hanno accettato la tesi che «gli imputati hanno agito nonostante la previsione dell’evento». Cioè sapevano che poteva accedere qualcosa di grave. I dubbi non sono finiti, la giornata sì. E ne devono, però, passare ancora altre 59 prima che la Cassazione renda pubbliche le motivazioni della sentenza. Ludovico Poletto, La Stampa 26/4/2014 GUARINIELLO: “NON C’È DOLO MA AVEVAMO RAGIONE: LE COLPE SONO DEI VERTICI” – [Intervista] – «E’ una sentenza fatta molto bene. Ed è davvero importante che si dichiarino irrevocabili le parti relative alla responsabilità degli imputati. Vuole dire che non ci sarà prescrizione». Il giorno dopo la sentenza della Cassazione su Thyssen il pm Raffaele Guariniello è nel suo ufficio in un palazzo di Giustizia semideserto. Alle prese con la lettura del dispositivo della Suprema Corte, che ha creato non pochi dilemmi. Si torna in appello. In che senso dovranno essere ridefinite le pene? «È stata accolta la nostra prima impostazione, cioè che il reato di omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche e quello di disastro vadano considerati separatamente. Le pene previste per l’uno e per l’altro si devono quindi sommare. I reati sono tre, perché c’è anche l’omicidio colposo. Quindi, nel nuovo processo, chiederemo un aumento delle pene». Il dolo eventuale è stato definitivamente escluso. Una sconfitta? «Non abbiamo convinto la Cassazione. Le novità non sono facili da far passare. Ma siamo soddisfatti perché è rimasta la colpa cosciente: gli imputati hanno agito nonostante la previsione dell’evento. È stato convalidato il nostro impianto e si sancisce che quando l’infortunio non è un fatto sporadico ma costituisce il frutto di una scelta aziendale, allora le responsabilità vanno cercate nei vertici. E un altro aspetto positivo è che sia stata confermata la responsabilità della società come persona giuridica. È una conferma anche della bontà della nostra metodologia d’indagine, basata anche sull’acquisizione di tutte le carte e dei file sui computer, con controlli incrociati sui documenti». Eppure, dopo più di 6 anni, per quanto le responsabilità siano irrevocabili, non si è ancora messa la parola fine. «Grazie alla nostra specializzazione siamo riusciti a chiudere le indagini in tre mesi. In altri casi ci vogliono anni, con il rischio di arrivare in Cassazione con i reati prescritti. Non è una responsabilità di qualcuno in particolare, è il sistema che non funziona. Credo che questo debba essere portato all’attenzione del Governo. Vedo che sono molto attivi, chissà che non sia la volta buona per l’istituzione di una procura nazionale per questi reati». È cambiato qualcosa dopo la tragedia alla Thyssen? C’è più attenzione ai problemi della sicurezza? «La situazione è a macchia di leopardo. Ci sono ancora molte zone in cui questi processi non si fanno. Il grande impegno che dobbiamo avere – e non dico solo i magistrati, ma anche i politici e i cittadini tutti – è dare una speranza di giustizia a chi non ce l’ha». È stato accusato, per le sue battaglie giudiziarie, di spingere le aziende ad andarsene, a non investire in Italia. Cosa risponde? «La miglior risposta l’ha data il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, il 30 agosto 2013, in occasione di una visita allo stabilimento ThyssenKrupp di Duisburg. Ha detto: “Sono al corrente del gravissimo incidente di Torino. Non ci può essere politica europea industriale ambiziosa senza norme. Siamo inflessibili sulla sicurezza dei lavoratori. I responsabili di tali tragedie devono pagare”. Aggiungo che, al processo, era emerso chiaramente che i livelli di sicurezza della Thyssen in Germania erano maggiori di quelli in Italia. Noi non chiediamo di più per i nostri lavoratori, ma che siano tutelati almeno quanto quelli tedeschi». Paola Italiano, La Stampa 26/4/2014 “FERITE DALLE PAROLE DEL MANAGER SIAMO NOI LE UNICHE VITTIME” – Dopo l’incertezza della pena per i sei imputati, l’affronto da parte di uno di loro, l’ex responsabile dello stabilimento di Torino, Raffaele Salerno. No, i famigliari dei sette martiri della Thyssenkrupp non ce la fanno a sopportare «tutte le sue falsità » e reagiscono con indignazione e rabbia alla sua intervista, pubblicata ieri sul nostro giornale. Prima di salire sul treno ad alta velocità, che ieri sera li ha riportati a Torino, sfogano tutta la loro frustrazione. «Dire che siamo allibiti è riduttivo – esordisce Rosina Demasi, madre di Giuseppe, l’ultimo a morire a soli 26 anni dopo un mese di agonia – Salerno dice di essere l’ottava vittima e che sua moglie malata di cancro è la nona? Ma stiamo scherzando? Le vittime a parte i nostri ragazzi, siamo noi che abbiamo perso per sempre la gioia di poterli abbracciare. Mi dispiace per sua moglie, ma cosa c’entra la sua malattia con il rogo che ha bruciato vivi i nostri cari? Io mio figlio l’ho potuto identificare solo dall’alluce, il resto era tutto carbonizzato». Rosina è una donna minuta, ma il cuore gonfio di disperazione la rende una tigre disposta a tutto per difendere la memoria di Giuseppe. «Salerno non solo è un assassino ma è pure bugiardo. Prima ci accusa di essere stati interessati ai soldi del risarcimento e ora ci viene a dire che in realtà lui si riferiva alla costituzione di parte civile di Comune, Provincia e Regione. Non ci credo, ce l’ha sempre avuta con noi. A parte che i soldi ci spettavano di diritto, io neppure li volevo. Volevo solo che i colpevoli andassero in carcere. E infatti quei soldi sono in banca e neppure li tocco. Continuo a fare l’infermiera e continuo a vivere nella casa di periferia dove ho sempre vissuto. L’unica cosa bella della mia casa sono le pareti ricoperte dalle foto poster del mio Giuseppe». Per questa mamma ogni parola pronunciata dall’ex responsabile della sede Thyssen torinese è un distillato di veleno. «Non ci ha mai chiesto scusa o perdono. Mai. Sostiene di non essere venuto a casa nostra a farci le condoglianze perché temeva che gli sputassimo. Bugiardo! Marco Pucci (nel comitato esecutivo dell’acciaieria, in appello condannato a 7 anni, ndr) era venuto a casa nostra subito dopo la tragedia. E nessuno gli ha sputato in faccia!». Nemmeno il fatto che Raffaele Salerno abbia assicurato di pregare ogni giorno per i sette operai scomparsi, lenisce la ferita di Rosina. «Prega perché sa benissimo che neppure Dio lo può perdonare per quello che ha fatto. Se avesse voluto veramente bene ai ragazzi avrebbe garantito la sicurezza sul lavoro e invece se n’è lavato le mani». Un’altra madre – quella di Rosario Rodinò, anche lui ustionato a morte a soli 26 anni – ma la furia dolente non cambia. Non può cambiare. «Salerno cita la moglie malata – ribadisce Graziella Rodinò – e io cosa dovrei dire? Sua moglie ha il cancro, mio marito il 13 dicembre scorso è morto di crepacuore. Dopo la fine di Rosario non si è mai più ripreso, è andato in depressione e ultimamente non voleva più uscire nemmeno per andare a trovare nostro figlio al cimitero. Mio marito sì che è l’ottava vittima della Thyssen non Salerno o sua moglie. La mia casa è vuota, senza più Rosario e mio marito. Sì, ho altre due figlie e i nipotini, ma non potrò mai avere i nipotini di Rosario. Mai e poi mai». E poi c’è tutta la sofferenza di tre bambini che chiedono continuamente del loro padre, Antonio Schiavone, morto a 36 anni. «I miei figli, 6, 10 e 13 anni, sono vittime indirette della strage di quella notte - sbotta la moglie Tina -, non certo Salerno. Farebbe meglio a stare zitto perché lui che dirigeva lo stabilimento in condizioni di totale mancanza di sicurezza, ha più responsabilità di altri». Grazia Longo, La Stampa 26/4/2014