Gabriele Romagnoli, la Repubblica 28/4/2014, 28 aprile 2014
CHE COSA DOBBIAMO FARE QUANDO ARRIVA L’APOCALISSE
Apocalypse how. Ovvero: come finirà la soap opera dell’umanità. Nel caso vi interessi l’anticipazione dell’ultima puntata. Perché ci sarà: senza se e senza ma. La vita sulla Terra dura da tre miliardi e mezzo di anni, il 99 per cento dei quattro miliardi di specie esistite si è estinto. Per i mammiferi le ipotesi più ottimiste danno ancora 7500 anni circa. Né chi legge né chi scrive può quindi (salvo colpi di scena) avere altro cruccio che quello di conoscere un finale a cui non assisterà. Per chi non sappia resistere esiste uno spoiler, come viene definita la rivelazione di trame non ancora pubbliche. È il libro di Alok Jha Manuale dell’apocalisse – Cinquanta ipotesi sulla fine del mondo, pubblicato da Bollati Boringhieri (pagg. 342, euro 26).
Due indizi fanno pensare che l’evento, seppur a distanza di sicurezza, stia approssimandosi. Lo stesso autore, fisico e corrispondente scientifico del Guardian aveva precedentemente dato alle stampe: How to live forever , come vivere per sempre. Mentre lui recede dall’infinito ottimismo anche gli editori lo fanno: prima infatti davano lo stesso titolo a libri che insegnavano come comportarsi ad apocalisse avvenuta. Questo si limita a spiegarci come avverrà. Dopodiché, non ci sono altre pagine da voltare. Va detto che autori, editori e scienziati finora non sembrano averci capito granché: se così non fosse stato minore o nessun successo avrebbero avuto religioni, profeti della domenica, divulgatori di paure e speranze capaci di condizionare.
Il libro di Jha può essere letto cominciando dal sommario e lasciandoci semplicemente sorprendere da alcune delle 50 possibilità letali. Tipo: L’estinzione dell’informazione (ma non è già avvenuta e noi siamo ancora qui?), il decadimento del vuoto (se il vuoto fosse davvero insostenibile molti esseri umani non esisterebbero), incognite sconosciute (laddove l’autore emula e frulla i pitagorici e Donald Rumsfeld, aggiungendo un elemento non individuato che completa la quinta decina e citando
come massimo pericolo «le cose che non sappiamo di non sapere», dalla cui doppia negazione scaturisce la beata eventualità che noi si esista e loro no).
Dopodiché possiamo affrontare i finali plausibili, qui e ora, o almeno quelli da temere. Qui l’approccio scientifico aiuta. Come? Per esempio assicurandoci che il terrorismo, di qualunque fede o colore, non può far finire il mondo. Con una bomba sporca radioattiva, chimica o biologica si può spopolare una città, non il pianeta. Ne occorrerebbero centinaia, fatte esplodere simultaneamente in località diverse. Scientificamente “piuttosto improbabile”. Il vero pericolo è semmai la distruzione reciproca assicurata tramite una guerra nucleare scatenata da uno dei nove Stati (Usa, Russia, Cina, Corea del Nord, Francia, Regno Unito, Israele, India, Pakistan) che possiedono armamenti idonei qualora alla sua guida si venisse a trovare un pazzo terrorista. Bene, rileggete l’elenco: non è forse già avvenuto (e, di nuovo, siamo ancora qui)? E non sarebbe il caso di inserire tra i potenziali detonatori la democrazia, dato il fascino che alcuni furiosi scriteriati esercitano sulle masse?
Poi ci sono i finali fantascientifici, quelli a cui ci hanno abituato i film. Il più frequente è quello dovuto a extraterresti ostili. A questo riguardo Jha ci rivela un dato inquietante e confortante al tempo stesso. Noi stiamo lanciando da anni segnali nello spazio attraverso le trasmissioni televisive via satellite, alcune si trovano già a ottanta anni luce dalla Terra. Gli alieni stanno vedendo il “Grande Fratello”: «Difficile capire se una cosa del genere li attirerebbe o metterebbe in fuga». La scienza si ritira anche davanti all’ipotesi di un asteroide assassino, come quello evocato da Lars von Trier nel placido gran finale di Melancholia . La più grande esperta di meteoriti (Monica Grady) ha infatti scritto: «Ogni centomila anni un oggetto più grande di un chilometro colpisce la terra; ogni cento milioni ne cade uno più grande di sei milioni di chilometri, in grado di causare un’estinzione di massa. È ormai parecchio che non ne arriva uno grosso». Tutto lì? È ormai parecchio che non esce il nero, quindi puntate sul rosso? Data la prudenza media della razza umana con una previsione del genere ci farciamo i cannoli. L’abbiamo fatto, più o meno, con la desertificazione e l’aumento dei livelli del mare (convinti che due rischi opposti si annullino), con il megatsumani e il supervulcano (uno spegnerà l’altro), con l’inquinamento chimico, la distruzione dell’ozono, dell’ambiente, delle api. Risposta corale dell’umanità: «Smetto quando voglio». Non sarà mai troppo tardi, pensiamo. E ai posteri, come noto, riserviamo la frase: «Voi che avete fatto per noi?». Sragion per cui, alla fine, delle 50 ipotesi enumerate da Jha soltanto tre spiazzano. La prima è la fine del tempo. Pensavate la sua continuazione fosse scontata? Ripensateci. «L’espansione dell’universo che osserviamo è un’illusione, in realtà il tempo sta rallentando». Fino al punto in cui potrebbe trasformarsi in spazio, le galassie accelererebbero, anzi già lo stanno facendo, entrerebbero in gioco nuove leggi della fisica e se anche l’universo atemporale continuasse per sempre, noi scenderemmo.
La seconda ipotesi è quella dello strangelet, particella ipotetica che comporrebbe la materia oscura e sarebbe così stabile da poter trasformare qualsiasi altra in una copia di se stessa. Nel giro di poche ore questa proliferazione di particelle distruggerebbe la Terra. Ma lo strangelet è anche una specie di sliding door, una porta d’accesso a mondi multipli dischiusi da ogni scelta e nel multiverso esiste sempre un’uscita d’emergenza.
La terza e ultima ipotesi sulla fine del mondo è tra le più vecchie e fascinose. Jha la chiama «è tutto un sogno» rimandando al dilemma di Chuang Tsu: «Stai sognando di essere una farfalla o una farfalla sta sognando di essere te?». Un essere evolutissimo si risveglia e miliardi di vite, di accadimenti, guerre, amori, pestilenze, opere d’arte, considerazioni sul senso e sulla fine, svaniscono perché le ha soltanto sognate. Se diamo a quell’essere il nome di dio, immaginiamo che poi, ispirato dalla visione nel sonno, crei in sette giorni i presupposti perché tutto accada di nuovo nella realtà. Se invece quel dio non esiste non ci sarà fine, perché non c’è stato inizio, ma soltanto la follia di un lepidottero capace di concepire crisi alimentari, polveri letali e disastri nanotecnologici mentre riposa un eterno minuto.