Marco Mensurati, la Repubblica 28/4/2014, 28 aprile 2014
QUELLA CURVA MALEDETTA
Il mondo intero non dimenticherà mai cosa accadde quella domenica di vent’anni fa alla curva del Tamburello. Lui, invece, non dimenticherà mai cosa accadde il giorno dopo. C’era un silenzio terrificante, a Imola. Il pubblico era tornato a casa, l’elicottero del pronto soccorso era rientrato nell’hangar, giornalisti e fotografi assediavano le loro vittime a Bologna e a San Paolo. Quel giorno, Stefano Stefanini, allora trentenne ispettore della Sezione di polizia stradale di Bologna arrivò alla curva del Tamburello per fare i rilievi, come per un normale incidente. «Qui vicino» spiega oggi e ancora s’emoziona «scorre il fiume Santerno e a maggio l’aria si riempie della lana dei pioppi. Entrai in pista da laggiù» indica, «per terra c’erano le tracce della frenata di Ayrton. E, dove finivano, cominciava un tappeto colorato di fiori, lettere e ricordi vari che gli appassionati avevano lasciato durante la notte. Erano le quattro del pomeriggio. Non volava una mosca. E io mi facevo largo verso il muro spostando questi fiori».
Fu il primo atto dell’indagine. Uno dei più dolorosi. «Mentre compivo quel gesto, misurai con il mio imbarazzo da profanatore l’amore che il mondo intero provava per quell’uomo». Un amore che Stefanini avrebbe misurato ancora mille volte nei mesi successivi: «Ovunque in Italia trovavamo disponibilità e collaborazione. Appena dicevamo che era per l’indagine Senna tutti cercavano di rendersi utili». Ed è forse anche per questo che oggi – dopo vent’anni passati senza mai concedere un’intervista - può vantarsi di aver condotto un’indagine perfetta, se un’indagine perfetta esiste, e di aver ricostruito con ragionevole certezza la verità dei fatti: Ayrton Senna uscì di strada e urtò contro il muretto in cemento armato alla velocità di 198 chilometri all’ora e con un angolo di incidenza di 22 gradi. La forza d’urto spostò il muretto di 11 millimetri. La ruota è fissata a una macchina di F1 da cinque braccetti che terminano con un anello detto uniball. Nell’impatto uno di questi uniball esplose, e un frammento deformato, una lama di circa 6-7 centimetri perforò il casco, proprio nel punto in cui comincia la visiera. Come un proiettile. Arcata temporale destra. La macchina continuò, per inerzia, il suo percorso per altri 135 metri.
L’indagine di Stefanini e del pm di Bologna, Maurizio Passarini, «uomo eccezionale, lavorare con lui per me è stata una fortuna», dimostrerà che Senna aveva perso il controllo della sua Williams per via della rottura del piantone dello sterzo, un pezzo che aveva subìto “modifiche mal progettate e mal costruite” per le quali è stato condannato per omicidio colposo Patrick Head (reato poi prescritto), responsabile della Williams. «Fu un’indagine complessa. Perché buona parte degli accertamenti andavano svolti in Inghilterra. Lì non c’è la fattispecie colposa del reato. Non capivano cosa stavamo facendo. Ad ogni rogatoria, era come se ci dicessero: “Correva in F1, l’aveva messo in conto, è stato un incidente, perché indagate?”. Un ragionamento che accetto, però la legge italiana ci imponeva di stabilire con esattezza cosa fosse accaduto». Per questo c’è una nota di rimpianto nella voce di Stefanini nel valutare le due zone d’ombra ancora residue: la camera car di Senna, e le telemetrie sparite. «La sentenza non parla di depistaggi, quindi per me non ci sono stati. Però quando ci consegnarono le immagini della camera car, vedemmo che queste si interrompevano proprio due secondi prima dell’impatto. Staccavano su Katayama. Perché? Loro dissero che Senna era primo in quel momento e non c’era niente da vedere… Quanto alle telemetrie, la sera stessa la Williams chiese alla federazione di poter scaricare i dati delle centraline, per garantire la sicurezza dell’altro pilota, Damon Hill. Ha una logica, per carità. Ma poi i dati sono andati perduti. Se li avessimo avuti sarebbe stato tutto più semplice».
La F1, insomma, collaborò a modo suo, all’indagine, con moderato entusiasmo: per il suo interrogatorio, Briatore invitò gli investigatori (che rifiutarono) a Montecarlo sul suo yacht, Ecclestone non si presentò al processo, gli altri dissero e non dissero. La verità comunque, secondo Stefanini, è venuta fuori ugualmente, alla fine. «Anche grazie all’aiuto che ci dette Michele Alboreto. Era amico di Ayrton, voleva rendersi utile. Oggi posso dire che se abbiamo capito come è andata lo dobbiamo anche a lui».
Il problema, semmai, è rispondere alla domanda che facevano gli inglesi, capire a cosa sia servito indagare, scoprire tutto questo. «La verità serve sempre, mi piace pensare che se oggi in F1 ci sono meno incidenti è anche per merito della nostra indagine. Ma soprattutto mi piace pensare che Ayrton Senna sarebbe d’accordo con me».