Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 28 Lunedì calendario

BYE-BYE BABY

“BYE-Bye, Baby”, addio bambino. Sembra il classico titolo che preannuncia una lamentazione allarmistica sul crollo della natalità. Al contrario, è il “manifesto ottimista” di due esperti di storia della demografia che esaltano il declino delle nascite. Un fenomeno, ci avvertono, che non è più solo dei paesi ricchi ma sta dilagando in molte nazioni emergenti. Michael Teitelbaum di Harvard e Jay Winter di Yale, sono gli autori di questo studio intitolato The Global Spread of Fertility Decline , cioè la diffusione globale del calo di fertilità. La prima sorpresa è proprio questa. Siamo abituati alle geremiadi catastrofiste sugli effetti della caduta della popolazione in Occidente: spesso associati con un declino economico e un’invasione degli “altri”, gli immigrati che provengono da paesi ad alta crescita demografica. Contrordine. Quello scenario è datato, superato dai fatti. La diminuzione delle nascite non fa più distinzioni Nord-Sud né Est-Ovest. Colpisce il Brasile e l’Iran così come la vecchia Europa occidentale (dove, anzi, c’è qualche paese in controtendenza).
L’elenco che fanno Teitelbaum e Winter dei paesi che si stanno unendo a noi nel trend della denatalità, spazia dal Bhutan a El Salvador, dall’Armenia al Qatar. La metà dei cittadini del pianeta oggi abita in nazioni dove in media le donne hanno due figli a testa o ancora meno: cioè al di sotto di quella soglia che garantisce la stabilità della popolazione ai livelli attuali. Restano delle eccezioni importanti, sono concentrate prevalentemente nell’Africa subsahariana, dove cinque paesi hanno ancora dei tassi di natalità di sei figli per donna. Ma il trend sta scendendo dappertutto, «è universale, non dipende soltanto dalla prosperità economica o dalla secolarizzazione», scrivono i due esperti. La nazione più popolosa del mondo, la Cina, ha toccato nel 2012 il picco massimo in termini di forza lavoro attiva e da allora è iniziata la sua lenta decrescita. Non mancano neanche in Cina gli allarmisti, preoccupati che la Repubblica Popolare «diventi vecchia prima di diventare ricca».
Questi allarmi non sono affatto nuovi. I due storici-demografici ricordano che le profezie di sventura legate all’andamento delle nascite ci accompagnano da secoli. Oscillando da un estremo all’altro. L’economista Malthus fu il capostipite dei catastrofisti per la “troppa” natalità, che avrebbe esercitato un peso insostenibile sulle risorse naturali (terre agricole). Fu seguito da una lunga scia di discepoli, autori di best-seller come Paul Ehrlich che nel 1968 divulgò scenari apocalittici ne “La bomba demografica”. Sul fronte avverso, i teorici del tramonto dell’Occidente si appoggiarono anche loro sulle tendenze demografiche. All’inizio del secolo scorso il presidente americano Theodore Roosevelt ammonì sul rischio di un “suicidio razziale degli anglo-sassoni” di fronte all’avanzata di altri popoli ben più prolifici. Una letteratura sconfinata ha generato visioni cupe, di un futuro dove gli occidentali saranno sommersi dalle ondate migratorie in provenienza dai paesi dove non si pratica controllo delle nascite. Tra gli apocalittici recenti figurano un ideologo della destra americana come Jonathan Last, un geostratega come Steven Philip Kramer, perfino il settimanale The Economist che ha pubblicato diversi studi sul “Giappone che svanisce”, additato come il caso-limite dei danni della denatalità. Ma dobbiamo aggiornare le nostre informazioni. Teitelbaum e Winter ci avvertono, per esempio, che il famoso spopolamento della Russia è già un fenomeno superato. Fu legato al crollo delle nascite che coincise con i primi anni post-sovietici, nonché con l’alta mortalità dei maschi adulti decimati dall’alcolismo. Entrambe le tendenze si stanno attenuando, le donne russe cominciano ad avere più figli, e la mortalità si riduce. Gli Stati Uniti sono un caso interessante di equilibrio demografico: grazie non soltanto all’immigrazione, ma soprattutto alla natalità più elevata delle minoranze etniche già integrate nella società americana. Francia e Svezia sono due nazioni della Vecchia Europa dove i giusti incentivi e sostegni alle famiglie e alle donne che lavorano, hanno fatto risalire moderatamente la natalità.
I due esperti americani non vogliono sottovalutare l’importanza degli assestamenti, anzi sottolineano che «l’umanità intera è di fronte a una sorta di cambiamento geologico, come nell’èra glaciale», e proprio per questo non dobbiamo “fraintenderlo”. Guai a non vederne gli aspetti positivi «di fronte alle minacce del cambiamento climatico» che richiedono uno sviluppo più sostenibile. La riduzione delle nascite è «nel mondo intero, associata con più diritti e più opportunità per le donne». Per i bambini, anche: «in India un calo delle nascite significa poter finalmente concentrare le risorse su un’istruzione di qualità; lo Stato indiano del Kerala che ha un tasso di nascite inferiore ha anche uno sviluppo più avanzato». La Cina grazie al calo delle nascite può riconvertirsi: da un’economia fondata sullo sfruttamento della manodopera abbondante e sottopagata, verso produzioni più qualificate e salari migliori. Soprattutto è positivo il cambiamento nell’emisfero Sud del pianeta: «Messico, Filippine, Bangladesh, dovevano incoraggiare l’emigrazione come risposta ai loro problemi » di sovrappopolazione, ora la riduzione delle nascite consente di governare meglio anche i grandi flussi migratori.