Luigi Marattin, Linkiesta 28/4/2014, 28 aprile 2014
LE MILLE LEGGENDE SUL FISCAL COMPACT
Che le distorsioni e deformazioni del dibattito pubblico si fossero talmente aggravate da inquinare e rendere altamente impreciso (o spesso completamente falso) quasi tutto quello che gira sul web o nella maggior parte dei programmi televisivi, lo sapevamo da tempo. La situazione è particolarmente grave quando il virus della disinformazione aggredisce problematiche oggettivamente non di immediata comprensione per i non-addetti ai lavori. È il caso ad esempio delle regole fiscali derivate dalla ratifica del Trattato sulla Stabilità, Coordinamento e Governance nell’Unione Economica e Monetaria (per gli amici il Fiscal Compact). Nel giro di pochi mesi, è diventato il capro espiatorio di tutti i mali italiani: dalla disoccupazione giovanile alle alluvioni, passando per l’inefficienza della pubblica amministrazione fino ad arrivare al fatto che per Pasquetta c’è stato maltempo.
Il Fiscal Compact ha due dimensioni di vincoli, uno su un aggregato di flusso (una misura particolare del differenziale tra entrate e uscite annuali della pubblica amministrazione), e un altro su un aggregato di stock (il debito pubblico, considerato in rapporto al Prodotto Interno Lordo). La leggenda narra che questi due vincoli siano, rispettivamente, l’obbligo di pareggio di bilancio, e l’obbligo di tagliare 50 miliardi l’anno per ridurre il debito pubblico. I miliardi diventano, all’occorrenza, 70 o persino 100 se il disinformatore è particolarmente in forma e particolarmente ansioso di iniziare la guerra santa contro la casta dei tecnocrati di Bruxelles.
In realtà si tratta di due colossali fandonie, che ormai hanno inquinato a fondo il dibattito pubblico molto oltre i blog movimentisti, fino a lambire con il loro carico di confusione lo stesso confronto parlamentare e politico. Risulta infatti parecchio difficile oggigiorno (per fortuna con alcune isolate ma importanti eccezioni) trovare un esponente politico che non cada vittima del diabolico circolo vizioso della disinformazione.
Oggi ci occupiamo della prima fandonia (quella sul vincolo inerente la misura di flusso), lasciando quella sullo stock ad una eventuale puntata successiva.
Al momento nello spazio mediatico rilevante, in Italia, non esiste anima viva (giornalista, politico di maggioranza o di opposizione, commentatore) che non si riferisca all’obbligo contenuto nel Fiscal Compact – e introdotto nella nostra Costituzione nell’estate 2012 - con l’espressione “pareggio di bilancio”. Chissà come sarebbero sorpresi gli italiani nell’apprendere che in realtà l’oggetto di tale vincolo non è un vero aggregato contabile di bilancio, né siamo in presenza di un obbligo (perlomeno nella sua formulazione standard) di pareggio. “Pareggio”, infatti, significa avere due grandezze numeriche corrispondenti. Una squadra di calcio pareggia quando a fine partita ha segnato lo stesso numero di gol di quella avversaria; in caso contrario, vince o perde.
L’aggregato contabile standard di bilancio è il deficit (o indebitamento netto) delle pubbliche amministrazioni, dato dalla differenza tra uscite finali (che nel 2013 sono state pari a 798,940 miliardi) ed entrate finali (751,619 miliardi), considerate al netto delle operazioni finanziarie. Tale aggregato, perfettamente misurabile (a dire il vero lo sarebbe di più se ogni ente della pubblica amministrazione avesse un modo uniforme di fare i bilanci, ma lasciamo perdere), è in “pareggio” quando le entrate sono ogni anno uguali alle uscite.
E qui comincia a cascare l’asino. Il Fiscal Compact non obbliga affatto al pareggio di bilancio, inteso come deficit zero, e quindi entrate finali della pubblica amministrazione uguali alle uscite finali in ogni anno. Non lo fanno i regolamenti comunitari che costituiscono l’impianto normativo Ue sul coordinamento delle politiche di bilancio[1], né tantomeno lo fa la nostra Costituzione dopo la modifica dell’art.81 avvenuta nel 2012. Né, infine, lo fa l’ultimo tassello normativo, la legge attuativa 243/12.
Basta ad esempio leggere il Trattato (art.3) per comprendere innanzitutto che quello che viene chiamato “pareggio” non è pareggio. Il deficit (dopo vedremo quale) deve essere pari a quello che viene definito Obiettivo di Medio Termine (Mto, nell’acronimo inglese), fissato dal Regolamento UE n.1175/2011. Tale norma fissa il Mto allo 0,5% del Pil per i paesi con un rapporto debito/Pil superiore al 60% e all’1% per i paesi con un debito inferiore a tale soglia. Per l’Italia dunque il vincolo prescrive come limite inferiore un deficit allo 0,5% del Pil, non a zero. Si tratta di una differenza di quasi 8 miliardi di euro, non esattamente un’inezia.
C’è da dire tuttavia che il Governo italiano nel Documento di Economia e Finanza 2014 dichiara un Mto pari a zero, e non allo 0,5% del Pil. Volontà autolesionistica? Masochismo finanziario? Non esattamente. Anche se qui le cose si fanno un po’ nebulose, a dire il vero. Il valore del Mto fissato dalle norme comunitarie è un benchmark di riferimento; il valore preciso può essere anche più stringente, se lo Stato si trova in condizioni finanziarie particolarmente complesse. I documenti comunitari infatti prevedono che se un paese ha un debito pubblico particolarmente elevato o importanti costi in relazione al valore attuale dell’incremento delle spese legate all’evoluzione demografica (le cosiddette “passività implicite”) allora tale calcolo può portare alla definizione di un Mto più stringente. È difficile reperire su questo informazioni certe e calcoli verificabili: tuttavia è ipotizzabile, leggendo il Def, che le negoziazioni condotte nelle settimane e nei mesi precedenti con le istituzioni comunitarie abbiano sancito che le condizioni italiane siano tali da richiedere un Mto pari effettivamente a zero, e non a 0,5%.
Il deficit che deve essere allo 0,5% (vedremo dopo quando) non è il deficit corrente (la differenza tra uscite finali ed entrate finali ogni anno), bensì il deficit strutturale, vale a dire il “disavanzo corretto per il ciclo e al netto delle misure una-tantum e temporanee”. Il disavanzo corretto per il ciclo altro non è se non il deficit che tiene conto del fatto che quando l’economia produce meno di “quanto potrebbe” (livello a sua volta determinato dalla crescita della forza-lavoro, dello stock di capitale e della produttività totale dei fattori), lo Stato incassa di meno (perché si riduce la base imponibile dei principali tributi, cioè il reddito) e spende di più (perché aumentano categorie di spese - in primo luogo gli ammortizzatori sociali - che sono automaticamente legate al ciclo economico). Pertanto il deficit è più alto non perché il governo spende discrezionalmente, ma perché l’economia non sta utilizzando tutte le proprie risorse, a causa probabilmente di una domanda aggregata insufficiente; pertanto, viene riconosciuto (e permesso) l’operare dei cosiddetti “stabilizzatori automatici”, vale a dire quelle componenti del deficit pubblico (sia sul lato delle entrate che su quello delle spese) incaricate di rendere meno lieve la recessione, o comunque il sotto-utilizzo delle risorse.
In pratica è come se con il Fiscal Compact l’Unione Europea dicesse ai governi nazionali: «Ti riconosco che una parte del deficit è dovuta al fatto che la tua economia non sta andando come potrebbe, e quindi te lo lascio fare volentieri, a parte quello però, il tuo disavanzo strutturale — slegato dall’andamento del ciclo economico e dalle misure temporanee[2] — deve essere abbastanza vicino a zero». Questa prescrizione — nella distorsione del dibattito politico scambiata per sadico monetarismo tedesco o di Chicago o entrambi — in realtà ha il sapore prettamente keynesiano; è l’unica condizione, infatti, che consente ai governi di spendere in maniera sostenibile (e spendere tanto, compresi i soldi risparmiati quando l’economia andava bene) quando l’economia va male, o davvero male.
Come si traduce tutto ciò nel caso italiano? Come si arriva, a partire dalla misura osservabile (il deficit di bilancio) all’aggregato contabile virtuale oggetto del Fiscal Compact (il deficit strutturale, vale a dire corretto per il ciclo e al netto delle misure una tantum)? Prima di tutto si stima l’output gap, e cioè la differenza tra il livello del Pil osservabile e quello potenziale. Poi si cerca di capire come quanta parte del deficit della Repubblica non è dovuto ad un governo che spende e spande, ma piuttosto al fatto che l’economia non produce tutto quello che gli sarebbe possibile produrre, dati i livelli dei fattori produttivi (capitale e lavoro) e quanto efficientemente si combinano (produttività dei fattori). La componente ciclica del saldo di bilancio (da sottrarre quindi al deficit) si ottiene moltiplicando per 0,55%[3] la misura dell’output gap. A quel punto, per arrivare all’oggetto del Fiscal Compact non rimane che sottrarre le misure una-tantum.
Nel 2013 — secondo le stime del governo — l’economia italiana ha prodotto circa 71 miliardi di euro (output gap = 4,5 punti di Pil) in meno di quello che potremmo produrre come potenziale. Questo gap molto consistente si è prodotto a seguito di anni di pesante contrazione del Pil, e nonostante una diminuzione (sebbene più contenuta) delle nostre capacità potenziali di produzione di nuova ricchezza. Dal 2014, in virtù di una prevista accelerazione graduale della crescita economica, si prevede che il gap tra Pil reale e Pil potenziale si chiuda gradualmente nell’arco del prossimo quinquennio. Il fatto che dal 2015 in poi il saldo strutturale della pubblica amministrazione (riga g) sia in sostanziale pareggio mentre il deficit (riga b) continui a persistere dovrebbe – in un paese normale – mettere la parola fine alla leggenda secondo cui il mitologico “pareggio di bilancio delle tecnocrazie europee” ci obbligherebbe a non spendere più in deficit; come si vede, il deficit continueremo a farlo anche dopo aver soddisfatto formalmente i nostri obblighi europei.
Tutto bene allora? Non proprio. Secondo i regolamenti comunitari citati nel Fiscal Compact, l’aggiustamento verso il Mto deve essere pari almeno allo 0,5% annuo; vale a dire, il saldo strutturale di bilancio deve diminuire dello 0,5% del Pil ogni anno fino al raggiungimento del mitologico Obiettivo di Medio Termine. Vediamo dalla riga g che nel 2013 il governo ha rispettato questo step di riduzione, avendo diminuito il saldo strutturale addirittura di sei decimi di punto (da -1,4% a -0,8%); tuttavia, questo è avvenuto unicamente in forza del peggioramento dell’output gap (da -3,1% a -4,5%), che ha fatto aumentare la componente ciclica del deficit, e quindi diminuire il saldo strutturale seppur a parità di disavanzo (rimasto fermo al 3%).
Nel 2014 il governo dichiara di essere in grado di ridurre il saldo strutturale soltanto di due decimi di punto (da -0,8% a -0,6%), in forza — stavolta — di un vero sforzo fiscale di aggiustamento, vale a dire una riduzione del deficit dal 3% del 2013 al 2,6% del 2014 (riga b). Questo sforzo però – come si evince dall’esame delle tabelle del Def – è in gran parte dovuto al previsto aumento della crescita del Pil reale (riga a), che dal 2013 al 2014 dovrebbe passare da -1,9% a +0,8%. Ad ogni modo, questo aggiustamento strutturale di soli due decimi di punto (e non cinque) contrasta con gli step del percorso di raggiungimento del Mto; così come tale obiettivo non viene dichiarato nel 2015 (come da obblighi, in quanto trascorsi tre anni dall’uscita dalla procedura di deficit eccessivo), ma posticipato al 2016.
Questo punto è particolarmente importante, perché si tratta esattamente della circostanza evocata nella richiesta rivolta alla Commissione europea ed accompagnata dalla risoluzione approvata a maggioranza assoluta dalla Camera dei Deputati il 17 aprile, in conformità al dettato della legge 243/12 di attuazione del principio costituzionale di pareggio di bilancio strutturale. L’Italia infatti chiede di rimandare di un anno il raggiungimento del suo Obiettivo di Medio Termine sia in virtù delle circostanze eccezionali (il Programma di Stabilità a pag. 27 documenta un output gap peggiore di quello “rappresentativo”, e quindi lo considera una prova di una recessione particolarmente pesante) sia in virtù di un piano coerente di riforme strutturali in grado di innalzare permanentemente il tasso di crescita potenziale dell’economia.
Insomma, ricapitolando. L’obbligo al pareggio di bilancio non è un obbligo sulle entrate e uscite così come registrate dai bilanci degli enti della pubblica amministrazione; si riferisce ad un aggregato contabile “virtuale” (ed invero abbastanza…discrezionale nella sua computazione) che tiene conto del fatto che non sempre l’economia produce il livello di reddito che potrebbe potenzialmente produrre, e permettendo quindi – in virtù di questo - ad uno Stato di spendere comunque in deficit.
Non è neanche un obbligo al pareggio, visto che il benchmark di riferimento è lo 0,5% del Pil; e se il governo, in accordo evidentemente con le istituzioni UE - ha ritenuto opportuno fissare per il 2016 un Mto più stringente lo ha fatto perché le nostre condizioni iniziali su stock di debito e sostenibilità della spesa pensionistica sono particolarmente complesse. Niente, quindi, di cui si possa incolpare alcuno al di fuori di noi stessi.
Infine, il rinvio di un anno (dal 2015 al 2016) del raggiungimento del Mto è stato richiesto (e presumibilmente concordato in precedenza) in virtù di due aspetti, perfettamente inseriti nel contesto normativo comunitario: una recessione particolarmente pesante, e la promessa di realizzare per davvero quelle riforme in grado di sbloccare l’economia italiana, e di cui si parla da vent’anni. Riforme a cui è affidato il compito di completare il risanamento fiscale, in virtù del loro effetto espansivo sul tasso di crescita del Pil. Forse faremmo meglio a concentrarci su quest’ultimo aspetto, invece che continuare a incolpare il Fiscal Compact di colpe che non ha. E se invece proprio non ce la dovessimo fare a resistere alla tentazione di cercare a tutti i costi un colpevole, allora suggerirei di provare a guardarci allo specchio. Possibilmente uno specchio intertemporale, in cui sia possibile vedere riflessa l’immagine di varie generazioni di classi dirigenti: quella attuale – che certo deve ancora dimostrare il suo valore e le sue possibili colpe – e quelle precedenti, che le loro colpe invece le hanno dimostrate, eccome.
Note: [1] I due “pacchetti” di regolamenti che costituiscono l’ossatura dei principi sanciti dal Fiscal Compact sono il cosiddetto “Six Pack” (Regolamenti 1175 e 1177 del 2011, che modificano i Regolamenti 1466 e 1467 del 1997) e il cosiddetto “Two Pack” (Regolamenti 472 e 473 del 2013). Vi è poi il Regolamento 1176/2011 che riguarda la prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici.
[2] L’esempio di questi giorni di misure temporanee (contenuto nel decreto sul bonus Irpef) è l’incremento della tassazione in capo agli istituti di credito relativa alla rivalutazione delle quote di Banca d’Italia.
[3] Si tratta di elasticità specifici per ogni singolo paese , ottenuti stimando fattori quali la progressività del sistema fiscale e la qualità/quantità di ammortizzatori sociali, che la Commissione adotta dal 2013. Pr maggiori dettagli si veda Mourres,G., Isbasoiu, G..M., Paternoster D. e M.Salto (2013), “The Cyclically-Adjusted Budget Balance used in the EU Fiscal Framework: an UYpdate” Economic Papers 478, European Commission.