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 2014  aprile 28 Lunedì calendario

L’ASCESA DI ORLANDO, PROMOSSO MINISTRO NEI RISTORANTI GIUSTI


In apparenza né carne né pesce, Andrea Orlando, neo ministro della Giustizia, è in realtà più pesce che carne. Non solo perché è un rivierasco di La Spezia ma anche perché deve la carriera all’abilità di nuotatore tra le correnti del Pd sulla scia dei segretari di turno.
Per apprezzare il quarantacinquenne Orlando bisogna conoscerlo di persona. Vedendolo in tv, sembra solo un funzionario di partito pignolo. Un mio amico, poi diventato anche suo, lo conobbe invece in un’occasione conviviale. Entrato in confidenza, gli espresse la su citata impressione aggiungendo che la sua aria da maestrino era tipica della saccenteria comunista, da Palmiro Togliatti a Max D’Alema. «In parte, penso anch’io queste cose di me», gli rispose Orlando che abbandonò però subito il tono contrito per inanellare battute e fare caciara. Così, il grigio uomo d’apparato, allora portavoce del partito - lo fu con le segreterie di Walter Veltroni e Dario Franceschini - lasciò il posto a un tipo spiritoso e alla mano. La sua vera natura.
Salendo al Quirinale, Matteo Renzi non aveva in mente Orlando come Guardasigilli. Il designato era Nicola Gratteri, procuratore a Reggio Calabria, noto per la lotta alla ’ndrangheta. Fu Napolitano a insistere per l’incarico a un politico. Il perché è chiaro. Alla Giustizia servono riforme sgradite alla magistratura che un magistrato - cane non mangia cane - non farebbe mai. Se poi sia stato Napolitano a indicare Orlando, ministro uscente dell’Ambiente, non è noto. Ma lo ha accettato, segno che gli stava bene.
Il nostro Andrea, precocemente invasato dalla politica - a vent’anni (1989) era già segretario provinciale della Fgci - ha troncato gli studi, fermandosi alla maturità scientifica. Non ha uno straccio di laurea in Legge che oggi gli andrebbe a fagiolo, essendo quella tradizionale dei Guardasigilli, a cominciare da Togliatti, il suo più illustre predecessore tra i compagni di partito. Non sono mancate ironie e il ragionier Beppe Grillo, quando parla di Orlando, si crede in dovere di dire beffardo: «Forte del suo diploma». A parte che c’è il precedente, sempre a sinistra, di Piero Fassino che fu Guardasigilli (2000-2001) senza laurea, ma Andrea è in realtà un esperto. Con Pier Luigi Bersani segretario, è stato per tre anni (2009-2012) responsabile Pd della Giustizia dimostrando idee nette.
Nel 2010, in un’intervista al Foglio dal titolo «Caro Cav, il Pd ti offre giustizia», Orlando, stupì tutti dicendosi: per la «distinzione dei ruoli tra pm e giudici»; contro «l’obbligatorietà dell’azione penale»; per punire le toghe che sbagliano; contro il malvezzo dei pm di asserpolarsi in Parlamento sull’onda della notorietà acquisita con le inchieste. Insomma ripeteva, da sinistra, quello che invocavano da anni liberali, berlusconiani, centristi, avvocati, camere penali. Ovviamente, lo addentarono piddini e alleati, guidati da ex magistrati tipo la mozza teste Anna Finocchiaro e il sanculotto Totò Di Pietro. Andrea non fece una piega.
Dunque, se Napolitano ha appoggiato Orlando alla Giustizia, conoscendone le idee - il neo ministro è anche contro l’ergastolo e per un’attenuazione del carcere duro ex 41 bis (ma recentemente lo ha confermato al mafioso Provenzano, malatissimo) - vuole dire che è d’accordo. Che il Guardasigilli sia Andrea, tranquillizza il Cav e suscita speranze negli avvocati che, assetati di riforme, lo considerano una garanzia contro «le invasioni di campo» delle toghe refrattarie ai cambiamenti. Va invece di traverso al malmostoso, Antonio Ingroia, che sulla sua nomina ha mugugnato: «Una scelta di retroguardia». Per Orlando, una medaglia.
Il neo ministro avrà nei fatti il coraggio che ha avuto a parole? Finora si è contraddetto tanto nel caso Provenzano che sulla politica carceraria, identica a quella sciagurata dei predecessori. Il giudizio va però sospeso fino a giugno quando presenterà la riforma della Giustizia. Nell’attesa, non resta che ripercorrere la carriera del nostro Andrea.
Abbiamo già detto che si è appoggiato a tutti i segretari. Regnava D’Alema quando fece i primi passi da consigliere e assessore al comune di La Spezia. Con Fassino è entrato nel giro romano, diventando responsabile dell’Organizzazione e nel 2006 deputato (sempre riconfermato). Con Veltroni e Franceschini è stato portavoce facendosi una fama nazionale - che gli fa torto - di pinocchietto petulante. Con Bersani è stato arruolato nella legione dei cosiddetti Giovani turchi - Stefano Fassina, Matteo Orfini, etc. - cui il segretario affidava il futuro del Pd. Alle primarie 2013, vinte da Renzi, Andrea aveva votato per Gianni Cuperlo, ma ora è già un simil renziano.
L’uzzolo di fare il ministro gli venne l’anno scorso quando Enrico Letta formava il suo governo. Orlando si autocandidò con un espediente volpino. Di punto in bianco, cambiò il suo abituale ristorante romano per andare in quello dei lettiani e mettersi in mostra, motteggiare con loro e imprimersi nella memoria del premier. Poiché le alchimie destinavano un ministero ai Giovani turchi, il primo interpellato fu Fassina che chiese l’Economia. Quando capì che non ce lo voleva nessuno (toccò a Saccomanni), Fassina, che è permaloso, rinunciò. Letta convocò allora Orlando e gli chiese: «Vuoi un ministero?». Lui, senza nemmeno chiedere quale, disse subito sì. Gli andava bene tutto, purché fosse. Ebbe l’Ambiente.
Qui, ha fatto quel che ha potuto ed è entrato nelle simpatie dei geologi (che speravano nella riconferma) perché aveva preso a cuore il risanamento del Paese che crolla e frana a tutto spiano. Resterà però nel ricordo per avere introdotto un regolamento interno che è un capolavoro di pignoleria e un preoccupante spaccato del ministero. Diverse norme prescrivono ai dipendenti l’ovvio, che tale evidentemente non è: vestirsi decorosamente, non accettare doni onerosi, non farsi corrompere (sic!), dare sempre del lei «all’utenza» (cioè, noi), non dire parolacce. Infine, un classico del potere: non parlare con i giornalisti, lasciando che a farlo sia l’ufficio stampa.
Un solo incidente ha velato la sua ormai lunga carriera. Una goliardata ma che, in un precisino come lui, ha suscitato la gioia maligna di molti. Una sera di agosto di quattro anni fa, fu fermato dalla Stradale risultando positivo all’alcoltest (due birre). Gli fu sospesa la patente per tre mesi. Restò così male che corse a fare l’analisi del sangue all’Asl e a spedirla in Prefettura per dimostrare che non era bevitore abituale. Non ne dubitiamo affatto, caro ministro. Ma ora si lasci andare, tanto ha l’autoblu.