Fabio Tamburini, CorriereEconomia 28/4/2014, 28 aprile 2014
CRISI INDUSTRIALI CHI PAGHERÀ IL CONTO (MOLTO) SALATO DELL’ILVA
La crisi drammatica dell’Ilva può essere riassunta efficacemente da pochi numeri. La capacità produttiva dell’impianto di Taranto, il cuore del gruppo, è intorno ai 10 milioni di tonnellate d’acciaio. A fine 2011, sotto la gestione dei Riva e prima del grande crollo, ha toccato gli 8,5 milioni. Nel 2013 risultano venduti poco più di 6 milioni. Tradotto in quattrini questo significa che l’Ilva perde molti soldi. Le dimensioni del disastro non sono state rese note. Indicazioni di massima, non confermate dai vertici dell’azienda, ritengono che la perdita arrivi a 800-900 milioni all’anno, che significa almeno 65 milioni di euro al mese. In realtà la situazione è perfino peggiore perché per tenere botta il commissario straordinario, Enrico Bondi, ha liquidato buona parte del magazzino.
Piano ambientale
Un punto fondamentale non è chiaro: chi metterà i quattrini per evitare il disastro definitivo. Qui finiscono le certezze. E cominciano i sospetti. A metà marzo, secondo le procedure previste per legge, il consiglio dei ministri ha approvato il piano ambientale presentato da Bondi, che prevede gli investimenti necessari al risanamento e dev’essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Ma, dopo un mese e mezzo, non se ne sa più nulla. La versione ufficiale è che lo sta vagliando la Corte dei conti. Il sospetto è che venga tenuto nel cassetto perché l’uscita sulla Gazzetta fa scattare il termine di 30 giorni per la presentazione del piano industriale. Fonti vicine al commissario spiegano che è pronto e che la mancata pubblicazione non è dovuta a ritardi. In effetti la bozza del piano c’è, come conferma la presentazione alle banche creditrici (principalmente Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco popolare).
Il problema però è un altro: la mancanza dei fondi per finanziarlo. Nel complesso servono oltre 4 miliardi, da utilizzare per il risanamento degli impianti e la gestione industriale. Di qui la necessità di una ricapitalizzazione importante, indispensabile anche perché le banche hanno subordinato ogni concessione al rafforzamento del capitale. Sempre per legge è stabilito che il piano industriale venga presentato dal commissario a quella che nonostante tutto rimane la proprietà, cioè ai Riva. A sua volta la famiglia potrà fare le osservazioni del caso, di cui Bondi potrà tenere conto oppure no. Contemporaneamente si concluderà il confronto con le banche.
Le scelte
Difficile prevedere quali saranno le scelte dei Riva. In passato hanno dato segnali di voler investire ancora nell’Ilva, ma oggi regna l’incertezza perché la famiglia è numerosa e il patriarca, Emilio Riva, si avvicina a 90 anni e con problemi gravi di salute. L’ordine di grandezza dell’investimento che una parte dei Riva era disponibile a fare risulta intorno a 500 milioni di euro, peraltro insufficiente a garantire l’intero ammontare dell’aumento di capitale, che non potrà essere inferiore a 1 miliardo, probabilmente più vicino a 1 miliardo e mezzo.
L’alternativa è che scenda in campo un cavaliere bianco o qualcosa di simile. Eventualità certamente possibile ma complessa. Il gruppo è commissariato, la gestione industriale batte in testa, la magistratura di Taranto incalza sul fronte del risanamento ambientale, quella di Milano indaga su reati societari, fiscali e valutari. Nei giorni scorsi Antonio Marcegaglia, che insieme alla sorella Emma guida il gruppo omonimo, grande consumatore di acciaio, ha spiegato di seguire minuto per minuto le vicende dell’Ilva e che potrebbe essere interessato ad una cordata per rilanciarla.
Socio estero
Di sicuro Arcelor-Mittal, la multinazionale leader dell’acciaio, sta monitorando la situazione. La preoccupazione, in questo caso, è che possa spuntare un concorrente asiatico interessato a utilizzare l’Ilva di Taranto come trampolino di lancio per l’Europa e il Nord Africa. Proprio Arcelor-Mittal e il gruppo Marcegaglia, non molto tempo fa, hanno presentato una offerta per rilevare l’Acciaierie di Terni, un’altra vecchia gloria del settore, d’intesa con l’imprenditore siderurgico Giovanni Arvedi. Quest’ultimo però è più interessato a crescere con una acquisizione nel Nord Est, mentre per il resto si vedrà.
L’ultima chance, per quanto riguarda l’aumento di capitale, è la possibilità che il commissario bussi alla porta della magistratura milanese, che nei mesi scorsi ha chiesto due sequestri dei beni della famiglia per un totale di circa 2 miliardi (di cui 1,2 miliardi già eseguiti).
Chi deciderà è una vecchia conoscenza di Bondi: Francesco Greco, l’attuale procuratore aggiunto che segue i reati societari. I rapporti risalgono a due casi di cui entrambi sono stati protagonisti: Montedison e Parmalat. Un aspetto decisivo, anche per le scelte che spetteranno alla magistratura, è la credibilità del piano industriale preparato da Bondi d’intesa con i consulenti di Mc Kinsey. L’incognita più rilevante, e più discussa, è la scelta strategica che rappresenta l’asse portante del piano: la riduzione nell’altoforno dell’utilizzo di coke, che verrebbe sostituito con un sistema di alimentazione meno inquinante basato sul cosiddetto preridotto, a cui si arriva bruciando ferro nei forni a gas.
«Una tecnologia che risulta molto costosa ed è conveniente soltanto nei Paesi produttori di gas in grande quantità e vicino ai forni», commenta Antonio Gobbi, presidente di Federacciai.