Alessandra Puato, CorriereEconomia 28/4/2014, 28 aprile 2014
ENTI LOCALI POLTRONIFICIO PUBBLICO, SE SI TAGLIA SALTANO 26 MILA POSTI
Se prima era l’Ikea, ora potrebbe diventare una catena di mobilieri di famiglia. Il poltronificio delle amministrazioni pubbliche locali ha sempre sfornato posti a gogò. Potrebbe rallentare, ora che il governo Renzi ha annunciato di voler ridurre «in tre anni da ottomila a mille» le società pubbliche locali, e che da gennaio sono in vigore i tetti del decreto Monti al numero dei consiglieri per le non quotate (tre o cinque se a totale partecipazione pubblica, legge 135/2012). Sarebbe la rivoluzione delle 30 mila poltrone.
Tanti sono, secondo le stime per Corriere Economia dell’Agici Finanza d’Impresa fondata da Andrea Gilardoni, docente di Economia e gestione delle imprese in Bocconi, i consiglieri d’amministrazione delle 7.065 società partecipate dagli enti locali (Rapporto Mef 2013, su dati 2011). Se le municipalizzate scendessero a mille, ne salterebbero 26 mila. Il dato dei 30 mila (massimo) presuppone infatti 4,3 membri per consiglio (stima Istituto Pio La Torre 2012, sulle partecipate dai Comuni); al minimo, in stima prudenziale (2,9 membri per cda) i consiglieri sarebbero 21 mila. Le cifre sono inedite in un settore così frammentato e disomogeneo. L’indagine Agici è teorica e non esaustiva, ma è un punto di partenza. Può anche dare un’idea delle retribuzioni.
Gli stipendi
Tagliato il tagliabile come da ultime norme, e considerato sia la differenza fra le piccole società e le grandi, sia che ormai gran parte dei consiglieri dovrebbe venire dalle fila dei dirigenti delle aziende o degli enti che le controllano (Decreto Monti, si risparmiano stipendi), la stima di Agici è di 20 mila euro lordi all’anno per consigliere. Per 21-30 mila poltrone fanno 400-600 milioni l’anno.
Non è molto. «Ma è il compenso dei soli amministratori — dice Gilardoni —. La gestione delle società costa almeno il triplo, fra organi di controllo, eventuali affitti, personale amministrativo. Per un’azienda con minima struttura, almeno 50 mila euro all’anno. Il problema è per le società con attività modesta, dove l’incidenza di questi oneri è alta. A regime, il decreto Monti dovrebbe ridurre il problema. Circa il 60% dei consiglieri delle controllate per intero dalle amministrazioni saranno dipendenti pubblici».
Il punto nodale è la quantità di partecipate. Una rete infinita. Prendiamo le quotate in Borsa, cioè A2A, Acea, Hera, Iren, Acsm Agam, Ferrovie Nord Milano, Ascopiave, Acque Potabili: nel 2011, in otto, avevano 608 partecipazioni di primo e secondo livello, scese nel 2012 a 534 (dati Agici-Aida Pa). Da sole conterebbero, nelle stime di Agici (su dati 2011), fra i 1.800 e i 2.600 consiglieri.
Escludiamo le quotate? D’accordo. Consideriamo le maggiori società di Comuni e Province. Qui sono 15 le aziende dei Comuni con fatturato sopra i 250 milioni: contano 164 partecipazioni e 490-700 consiglieri stimati. Sono 11 le società delle Province con giro d’affari oltre i 50 milioni: 58 partecipazioni, 170-250 amministratori.
In tutto, comunque, arriviamo alla stima di 3.550 consiglieri in 34 aziende. Il restante 90% è disperso in circa 7 mila società. «Limitatissima la presenza femminile — dice Gilardoni —. E nei cda delle quotate è forte la presenza di esponenti politici. Ma si sta cambiando».
I casi Hera e A2A
Lo rivelano i casi A2A e Hera. La prima, come voluto dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia, nell’assemblea prevista a giugno lascerà il sistema duale, riducendo i consiglieri da 23 a 14 (dopo il taglio dei compensi del 2012). «Ci aspettiamo un processo decisionale e gestionale più snello», dice Renato Ravanelli, direttore generale di A2A che oggi dichiara 61 partecipate significative (sopra il 10%), contro le 90 del 2008.
Quanto a Hera, che raduna 187 comuni e vanta un rapporto debito-patrimonio uno a uno, mercoledì scorso ha annunciato il taglio sia dei consiglieri, da 20 a 14, sia dei loro emolumenti, -20%: massimo 60 mila euro l’anno, da 75 mila (prima ancora erano 100 mila). Questo compenso inoltre, dice l’azienda, «già comprende la possibilità di essere nominati in società del gruppo, o dirigenti del gruppo che riversano i loro compensi alla società»: il costo dei cda scende a 1,2 milioni.
«Abbiamo anticipato il decreto Monti, benché non si applichi alle quotate — dice il presidente Tomaso Tommasi di Vignano —. Gli stessi azionisti pubblici hanno ritenuto, già due anni fa, di ridurre il consiglio per renderlo più efficiente». Problemi con i 200 campanili-soci? No, dice Tommasi, anche perché Hera li gratifica con i dividendi: a giugno il Comune di Bologna, socio maggiore al 10,7%, avrà 13,7 milioni lordi; quello di Alfonsine, il più piccolo con lo 0,06%, 78 mila euro. «Ma il costo complessivo della governance di tutti i consigli delle partecipate è andato a ridursi per il lavoro di riorganizzazione a monte», precisa Tommasi. Hera, che ora ha per socio anche il Fondo strategico della Cdp, ha infatti sfrondato società fuori dal core business e sovrapposizioni da fusioni, tagliando in 12 anni 186 partecipazioni: oggi ne ha 40 (con 208 posti in cda, e il 70% dei suoi sono dirigenti del gruppo o ex). Sei mesi fa, per esempio, ha venduto al Comune di Bologna la società di gestione del cimitero; prima ancora, ha ceduto Modena Formazione, o duplicati sulle rinnovabili. «Il consolidamento delle aziende pubbliche è urgente — dice Tommasi —. Ora si è preso coscienza del problema. Ma non va fatto per decreto, piuttosto con incentivi». E con che soldi? «Un’idea può essere lavorare sui vincoli di stabilità: ciò che incassi dismettendo quote nelle partecipate lo puoi utilizzare, per esempio, per costruire asili». Si attende il piano del governo.