Paolo Mieli, Corriere della Sera 28/4/2014, 28 aprile 2014
IL RIMPIANTO DI METTERNICH «NATO NELL’EPOCA SBAGLIATA»
Uno statista sorpassato dall’avvento della modernità A fine giugno del 1813 il quarantaquattrenne Napoleone Bonaparte e il quarantenne Klemens Wenzel Lothar von Metternich ebbero a Dresda un lungo incontro che ha da sempre affascinato i biografi di entrambi i personaggi. L’imperatore era reduce dalla disastrosa campagna di Russia, ma anche da qualche successo in Sassonia, dove in maggio aveva inflitto ripetute sconfitte agli eserciti prussiano e russo: a Weissenfeld, Lützen, Bautzen, Wurschen. Metternich, ministro degli Esteri dell’impero asburgico, era lì per offrirgli la sua mediazione. Ed è questo lungo colloquio che fa da cardine narrativo al magistrale Metternich di Luigi Mascilli Migliorini, che l’editrice Salerno sta per dare alle stampe. Non era la prima occasione in cui i due si parlavano a tu per tu. Ma fu solo stavolta che il confronto ebbe caratteri definitivi.
«Che cosa si vuole da me?», proruppe il Bonaparte secondo la testimonianza dello stesso Metternich, «Che io mi disonori? Mai! Morirò, ma non cederò un pollice di territorio. I vostri sovrani, nati sul trono, possono battersi venti volte e rientrare sempre nelle loro capitali; io no, perché sono un soldato arrivato. Il mio dominio non mi sopravvivrà dal giorno in cui avrò cessato d’essere potente e quindi temuto». Era probabilmente un «errore psicologico», dal momento che, come ha osservato Jean Tulard nel suo Napoleone (Rusconi), «la Francia, stanca della guerra, avrebbe accettato la restituzione delle province illiriche e l’abbandono della causa polacca». Fu uno sbaglio — sempre secondo Tulard — anche pensare che Vienna sarebbe restata neutrale nell’imminente conflitto, perché significava non tener conto delle pressioni britanniche, di un Paese cioè il cui aiuto economico era indispensabile, sull’Austria. Di lì a breve (in ottobre), l’imperatore corso, tornato in battaglia, sarebbe stato sconfitto a Lipsia e, all’inizio dell’anno successivo, si sarebbe visto costretto ad abdicare. Metternich, nel contempo, sarebbe stato premiato con l’elevazione, da parte dell’imperatore austriaco Francesco I, al rango di principe.
Quel «principe» era nato nel 1773 a Coblenza da una famiglia aristocratica. La sua è una tipica educazione renana, parla correntemente sia il tedesco che il francese e ha, in comune con Napoleone, una sconfinata ammirazione per Jean-Jacques Rousseau. Studia a Strasburgo negli anni della Rivoluzione francese e prova sgomento per il saccheggio dell’Hotel de Ville: il popolo rivoluzionario gli appare come «plebaglia infuriata». Suggestiva gli era sembrata, invece, l’incoronazione dell’imperatore Leopoldo II, alla quale aveva presenziato, nel 1790, a Francoforte, in compagnia del padre: uno degli spettacoli «più grandiosi e magnifici» ai quali aveva assistito nel corso della sua vita. Fu sempre al seguito del padre che conobbe Napoleone. I due, Napoleone e Metternich, si incontrarono al Congresso di Rastadt (novembre 1797), che aveva fatto seguito al trattato di Campoformio, successivo alla sconfitta austriaca.
A quei tempi il generale corso, mandato in Italia dal Direttorio, aveva 28 anni e Klemens 24. Franz Georg Metternich, il padre, era lì come plenipotenziario dell’imperatore e appariva al figlio come un’incarnazione dell’Antico Regime. Regime che opponeva qualcosa di sostanzialmente inadeguato a quei francesi «ribaldi dalle scarpe rozze», vestiti di «grossi pantaloni blu», «giacchette di ogni colore», «orribili fazzoletti di cotone intorno al collo», «grandi cappelli con un’enorme piuma rossa che li incorona», «capelli lunghi, neri e sporchi». Ma il giovane Metternich, pur con tutto il suo bagaglio di convinzioni legittimiste, è, secondo Mascilli Migliorini, «più vicino ai suoi coetanei di oltre Reno di quanto non lo sia alla diplomazia che circonda il padre e, come tale, molto più capace di intendere quel nuovo, sconvolgente rapporto tra forza e legittimità che appartiene assai ai suoi sfrontati avversari e assai meno al proprio mondo d’origine».
Quello che si consuma a Rastadt tra Metternich e il suo pur apprezzato mondo d’appartenenza è una sorta di «congedo generazionale». Importante perché, come ogni congedo di questo tipo, trasforma, anche nel caso in questione, un tendenziale «parricidio» in «una complessa elaborazione di rotture e riconoscimenti di continuità». Elaborazione che si realizza «in una dimensione privata e pubblica insieme, la quale viene esaltata dall’avere, sotto entrambi gli aspetti, lo stesso teatro di svolgimento». Per gradi il giovane Metternich «si sostituisce al padre nella gestione di quegli affari di famiglia che sono, per chi come loro ha beni collocati sulla riva sinistra del Reno, l’oggetto da seguire con attenzione nello svolgimento della partita diplomatica che ha il suo punto chiave, appunto, negli indennizzi dei territori dell’Impero ceduti alla Francia». Allo stesso modo «quella partita diplomatica trova il figlio sostanzialmente distante, per le modalità in cui essa avviene e per gli obiettivi che si propone, dalla impostazione che il padre, e con lui il governo di Vienna, danno alle trattative del Congresso». Il giovane Klemens «si accorge con prontezza (forse anche perché coinvolto in prima persona) dello scatenarsi di piccole rivalità, di minuscoli interessi tra i principi tedeschi minacciati dalla spoliazione o dalla secolarizzazione dei loro beni e, soprattutto, avverte sin dall’inizio la distanza enorme che separa Vienna, inconsapevole e poco informata, dalle dinamiche grandi e piccole dei frammenti di un Impero al suo naufragio». E «sembra trovare un irresistibile punto di riferimento in quel ventottenne generale nemico che, nella sua rapida apparizione… già si mostra come l’esecutore testamentario del vecchio Impero».
Nei primi dieci anni dell’Ottocento la carriera politica del giovane Metternich prenderà poi il volo. Dapprima ambasciatore a Dresda (1801), poi a Berlino (1803). Sono momenti duri per il suo Paese, sconfitto da Napoleone ad Austerlitz (1805). Ma felici per Metternich, che in quello stesso anno sposerà Eleonora, nipote del grande cancelliere di Maria Teresa d’Austria, Wenzel Anton von Kaunitz. Dopo quelle nozze, Metternich avrà l’incarico di ambasciatore a Parigi (1806), a seguito di una spregiudicata manovra dell’uomo destinato ad essere un suo importante interlocutore: il ministro degli Esteri francese Charles-Maurice Talleyrand-Périgord. «È lì, nel luogo di tanti crimini e di tanti orrori… che ebbe inizio la mia vita pubblica», scriverà anni dopo Metternich, mettendo in luce come da quell’istante tutto poteva accadere e il suo destino avrebbe potuto riservargli un posto «o molto in alto o molto in basso». Ed è nei panni di ambasciatore a Parigi che il 10 agosto del 1806 incontra nuovamente Napoleone, stavolta, come in quelle successive, a tu per tu.
È impressionato, il diplomatico austriaco, dalla «velocità» dell’imperatore che promette e mantiene, promette nuovamente e mantiene nuovamente. Soprattutto in campo militare, laddove lasciando Parigi orfana per quasi un anno, il Bonaparte riesce a sconfiggere in modi fulminei sia la Russia che la Prussia. Ma Metternich avverte anche che qualcosa comincia a scricchiolare tra le persone comuni. Scopre che l’opinione pubblica francese «è assai meno sedotta dalla gloria delle vittorie napoleoniche, di quanto da lontano si sarebbe potuto credere (e si credeva)». Napoleone ai suoi occhi è condannato «a non fermarsi mai», il suo gli appare come «un esercizio della forza in perenne movimento». Mentre il continente, a suo giudizio, manifesta l’esigenza di una politica stabilizzatrice di quiete. «Lo stato attuale delle cose in Europa», scrive, «porta in sé i propri germi di distruzione, e la saggezza del nostro governo deve farci arrivare al giorno in cui trecentomila uomini riuniti, sorretti dalla medesima volontà e diretti verso uno scopo comune, giocheranno il ruolo principale». Il ruolo di chi riporta l’ordine «in un momento di anarchia universale, in una di quelle epoche che fanno sempre seguito a grandi usurpazioni e cancellano persino le tracce dei conquistatori». È ora — intuisce Metternich — di por fine alla stagione della forza in movimento. E all’occorrenza, riserva giudizi spietati anche contro il «delirio guerriero che si è impadronito della famiglia dell’imperatore d’Austria».
Nel 1809 è nominato ministro degli Esteri e, con un’abilità davvero meritevole d’encomio, organizza per l’anno successivo il colpo di scena che avrebbe dovuto suggellare la concretizzazione della sua visione del mondo: il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa, figlia dell’imperatore austriaco. Anche nel precedente regime, quarant’anni prima, il futuro Luigi XVI aveva sposato (nel 1770) Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d’Austria. Ma a quei tempi l’alleanza matrimoniale si concretizzava dopo quella politica, cioè a quattordici anni dal trattato del 1756 tra la Francia borbonica e l’Austria asburgica. Adesso invece Metternich era riuscito in un lampo a dissuadere Napoleone, che appariva come un vincitore assoluto, dall’andare a nozze con la sorella dello zar Alessandro. Matrimonio che avrebbe stabilito un’alleanza tra Francia e Russia e avrebbe reso definitivi i termini della pace di Tilsit, ottenuta dopo che Napoleone aveva sconfitto i russi a Eylau (1807). Quello sposalizio con Maria Luisa fu perciò un vero capolavoro politico. Anche perché, come già mise in luce Albert Sorel nell’Ottocento, il risultato del matrimonio tra Napoleone e Maria Luisa «fu di riavvicinare all’Austria una Russia che da quell’avvenimento traeva la convinzione della definitiva rottura dell’alleanza di Tilsit, intravedendo come ormai inevitabile una guerra con la Francia; e cercava, di conseguenza, in un buon vicinato con Vienna, di ridurre la forza degli eventuali avversari». Quel matrimonio tra Napoleone e la figlia dell’imperatore d’Austria è a tal punto «suo» che Metternich, da ministro degli Esteri, si trasferisce per quasi un anno a Parigi, così da aver le mani libere per accudire lo sposo e cercare, in qualche modo, di indirizzarne la politica.
In quei mesi del 1810, però, Metternich, scrive Mascilli Migliorini, «acquisisce la certezza che il matrimonio non ha regalato all’Austria una condizione sia pur vagamente paritaria rispetto alla Francia napoleonica nella progettazione di un nuovo equilibrio europeo: non c’è speranza di alleanza sufficientemente egualitaria nella cornice di un’Europa sufficientemente stabilizzata». Anzi, per dirla in modo più preciso, «Metternich avverte allora in maniera pressoché definitiva che l’unica forma di equilibrio e di stabilità possibile è l’egemonia francese sul continente: un disegno di cui egli non può condividere né l’ispirazione originaria (una egemonia appunto), né i termini ideali e sociali di svolgimento (la rivoluzione) né il ruolo (di comprimario subalterno o addirittura di esecutore) riservato all’Austria e alla sua dinastia».
E infatti Napoleone, come da previsione di Metternich, riprenderà la via delle armi e dell’avventura, che lo condurrà alla rovinosa campagna di Russia (1812). E non si darà quiete neanche dopo la disastrosa ritirata di cui resterà simbolo, a fine novembre 1812, la sconfitta della Beresina. A questo punto Metternich lo incontra il 26 giugno 1813 a Dresda, nel colloquio (voluto da Bonaparte) di cui si è detto all’inizio. In piedi al centro del suo studio nel Palazzo Marcolini, Napoleone riceve l’ospite con il cappello sotto il braccio. «Quel cappello che decine e decine di immagini sparse in tutta Europa hanno ormai reso celebre», racconta Mascilli Migliorini, «volerà nella sala almeno quattro volte nel corso di una conversazione che durerà nove ore e sembrerà fermarsi solo quando il buio della notte obbligherà i due interlocutori ad abbandonare una stanza diventata nel frattempo scura perché nessuno in quelle ore ha osato entrarvi». Metternich gli propone delle soluzioni che comportano qualche passo indietro, ma che gli consentirebbero di cavalcare il difficile frangente. Lui, però, accetterà esclusivamente soluzioni di breve momento, di quelle che «parlano il linguaggio della saggezza diplomatica che si dà ancora qualche tempo per assecondare le forme e assestare le forze in campo». Accomiatandosi, Metternich, che ha ben compreso il senso di quel che gli ha detto Napoleone, gli risponderà con parole durissime: «Voi siete perduto, sire. Ne avevo il presentimento venendo qui; ora che me ne vado, ne ho la certezza». I fatti gli daranno ragione.
Per l’imperatore corso, che nel frattempo ha avuto un erede maschio dalla figlia dell’imperatore austriaco, sarà la decisiva sconfitta di Lipsia (ottobre 1813). Dopodiché, con grande finezza politica, Metternich si muoverà «cercando di evitare il crollo troppo rapido e rovinoso dell’Impero napoleonico e pensando, semmai, che la soluzione più vantaggiosa potrebbe alla fine trovarsi in un’abdicazione a vantaggio del figlio e una reggenza della madre (che è pur sempre un’Asburgo!)». Ma Napoleone non desiste, viene sconfitto, mandato all’Elba (1814), torna ed è, per lui, la disfatta definitiva di Waterloo (1815). Per Metternich è il momento di una vittoria «troppo piena», nel senso che non gli è consentito di tenere in vita qualche eredità della Rivoluzione francese. A Vienna, dove si riunisce il Congresso per dare un nuovo ordine al continente, la folla riconosce in lui il vincitore di una partita che è durata due decenni: a teatro lo salutano le note dell’Ouverture del Prometeo di Beethoven. Ma lui non si inebria, anzi è assalito da una sorta di malinconia.
A dicembre del 1815 visita una prima volta il Lombardo Veneto. Poi tornerà in Italia due anni dopo e se ne invaghirà. A Ferrara ammira il teatro «che farebbe onore a una grande capitale». A Bologna incontra l’erudito abate Mezzofanti, direttore della Biblioteca universitaria, «che conosce trenta lingue e quando parla tedesco sembra di trovarsi al cospetto di un autentico figlio della Sassonia». «Mi sarebbe difficile esprimervi il genere di impressione che Firenze deve necessariamente produrre su qualsiasi uomo che ami le cose belle e grandi», scrive alla moglie, compiacendosi della lingua parlata dalla gente comune. «Un vignaiolo che aveva l’aria di un mezzo negro mi ha fatto da Cicerone», racconta in un’altra lettera. A Lucca ammira gli eleganti ricordi napoleonici. La penisola italiana gli provoca uno strano sentimento di estasi, che lo spinge a volgere lo sguardo al passato. E si aggiunge qualcosa di ancor più intenso l’anno successivo, nel 1818, quando l’imperatore, a premiarlo per le sue benemerenze, gli regalerà, nella sua terra natia, la tenuta di Johannisberg, dal cui castello, scrive Metternich, «si possono vedere venti leghe di corso del Reno… otto o dieci città, vigneti che quest’anno daranno almeno venti milioni di litri di vino, interrotti da prati e da campi che sembrano dei giardini, graziosi boschi di querce e una pianura immensa coperta di alberi che si piegano sotto il peso di frutti eccellenti».
Metternich ha 45 anni ed è un uomo diverso da quello del passato. Con la rivoluzione spagnola del 1820 l’Europa si rimette in movimento e ora non c’è più Napoleone a fargli da contraltare. Adesso è lui che deve trovare soluzioni e non è capace di dare risposte diverse da quelle che comportano il ricorso alla forza. E questo mentre l’Inghilterra, alleata fino a qualche istante prima nella campagna antinapoleonica, prende (ovunque le sia consentito) le parti della lotta per la libertà. Metternich, scrive Mascilli Migliorini, «entra in questa stagione con una determinazione “vitale”, con un rapporto scarno e determinato con la forza e con il suo utilizzo, che non aveva molto da invidiare a quel Napoleone al quale, nelle ore del loro incontro a Dresda, egli non aveva mancato di rimproverare proprio questo: una fiducia nella forza destinata a soccombere alla ragionevolezza di chi agisce all’ombra e con la tutela della tradizione». Adesso era lui che avrebbe potuto essere rimproverato di eccessivo ricorso alla violenza a difesa dell’ordine esistente contro le quattro rivoluzioni (Spagna, Portogallo, Napoli e Piemonte) dei primi anni Venti. Stessa politica negli anni Trenta dopo la rivoluzione di luglio (1830) in Francia, allorché darà vita alla lega delle «tre aquile nere» (Austria, Prussia e Russia). E, soprattutto, dopo la morte dell’imperatore Francesco I, quando vedrà crescere a dismisura le proprie responsabilità politiche.
Sono anni in cui Metternich, scrive Mascilli Migliorini, colloca il proprio Paese «in aperta, inevitabile rotta di collisione con tutte le correnti innovatrici della lotta politica del suo tempo». Nel 1836 gioca di nuovo la carta delle alleanze matrimoniali con il duca d’Orléans, prima, e Ferdinando re delle due Sicilie, poi. Ma l’Europa è di nuovo in sommovimento e il fatto che non ci sia all’orizzonte un Bonaparte rafforza paradossalmente le rivoluzioni. È così anche negli anni Quaranta, fino a quel 6 agosto del 1847 quando in una lettera al conte Gyorgy Apponyi, vicecancelliere del Regno d’Ungheria, lascerà cadere la definizione dell’Italia «espressione geografica». Si è molto discusso se in quell’occasione Metternich volesse dire quel che di sprezzante nei confronti della nostra penisola gli è stato attribuito. Quasi sicuramente no. Ma è un fatto che l’uomo non è più in grado di capire cosa siano i movimenti rivoluzionari e come li si debba affrontare. Ed è così che la sua defenestrazione è la prima risposta che l’Austria sceglie di dare, in marzo, ai moti del 1848.
Un suo grande rivale politico, Franz Anton von Kolowrat, la racconta in questi termini: «Una compagnia di nobili percorre la puszta (pianura ungherese) d’inverno a bordo di una slitta. Un branco di lupi li insegue e sta per aggredire i cavalli. A questo punto i viaggiatori non hanno altra soluzione se non buttare giù dalla slitta il più corpulento degli occupanti, sperando che i lupi, impegnati a divorarlo, non si preoccuperanno più della slitta». Quando Metternich quel giorno torna a casa, la nuova moglie, Mélanie, gli domanda: «Allora siamo morti?». Non ci sarà bisogno di risposta. E mentre Radetzky, nell’estate del 1848, dà prova sul campo militare di tutta la rinnovata forza dell’Austria, Metternich si vede costretto ad una sorta di esilio prima a Londra, poi in Belgio. Per tornare a casa solo nell’ottobre del 1851 e ricevere lì l’onore di una visita del nuovo, giovane sovrano, Francesco Giuseppe.
Metternich morirà nel 1859, non prima di averci lasciato otto corposi volumi di memorie, all’interno dei quali si affaccia una ricorrente considerazione sul carattere transitorio dei tempi in cui ha vissuto. «Sono venuto al mondo o troppo presto o troppo tardi», scrive nel 1822. E nel 1844 insiste: «La mia epoca è stata un periodo di transizione… in una fase di questo tipo, l’edificio del passato è in rovina mentre il nuovo edificio non è ancora in piedi». Il dato curioso è che sono tutte riflessioni successive a quel Congresso di Vienna che lo aveva consacrato al potere per più di trent’anni. Ed è interessante come torni in lui la memoria di un palazzo viennese e di una sala «splendidamente illuminata per l’occasione», dove si riaffacciò il «fantasma di Dresda».
Stavolta — siamo nell’inverno del 1825 — il principe di Metternich incontra Federico Confalonieri, arrestato per aver partecipato ai moti liberali di Milano e in procinto di essere inviato al carcere dello Spielberg. Ma se a Dresda, scrive Mascilli Migliorini, «quasi con sorpresa» si era vista circolare «un’impalpabile simpatia reciproca» tra Metternich e Napoleone, qui si cercherebbe invano tra i due protagonisti «un punto di contatto, un sentimento di fondo condiviso, che sarebbe tanto più naturale in due uomini educati nello stesso universo di valori e di simboli». Metternich sa bene che il conte milanese non è certo della stessa pasta dei «demagoghi, dei giacobini, dei rivoluzionari di mestiere», ma questo rappresenta ai suoi occhi «una colpa ancor più grave». E il fatto che Confalonieri si ostini a non volergli offrire elementi che potrebbero compromettere Carlo Alberto nelle cospirazioni dell’epoca, aggrava la situazione. Peggio: Confalonieri gli fa intendere di considerarlo un uomo del passato, gli dà la sensazione che in quella stanza «non erano due uomini che si incontravano, ma due età e due principii»; stavano di fronte l’uno all’altro «il simbolo vivente del dispotismo con croci e ciondoli sul petto» e il futuro, sia pur rappresentato da un «uomo in ceppi». Un giudizio che «ci restituisce, a parti invertite, i sentimenti con i quali Metternich aveva vissuto le ore di Dresda». Ed è in quell’inversione delle parti che Metternich aveva perso la parte migliore di sé .