Danilo Taino, Corriere della Sera - La Lettura 27/4/2014, 27 aprile 2014
L’UFFICIO. UN CASO DI MORTE APPARENTE
Andrew Keen — polemista anglo-americano e imprenditore nella Silicon Valley — dice che «il vecchio ufficio è per gente mediocre, idee mediocri e aziende mediocri. Se vuoi eccellere, evadi dal cubicolo e portati il lavoro ovunque vai». Già, l’ufficio. Molti, soprattutto negli Stati Uniti, dicono che è morto, che le tecnologie mobili lo hanno assassinato. Poi si dividono: per metà di loro, la sua scomparsa è una cosa buona che ci libera e ci porta nella vita post-industriale; per l’altra metà ciò condurrà a un’alienazione ancora maggiore, a meno socialità. Questione non risolta, la morte dell’ufficio, come tutti i dilemmi del genere: ne sapremo di più tra un centinaio d’anni.
Nel frattempo, però, la bolla d’interesse e di discussione cresce: sul tema «ufficio-zombie vs. caro vecchio ufficio delle gerarchie ma anche delle relazioni extraconiugali» sono usciti di recente tre libri, uno di Nikil Saval, un secondo di Brigid Schulte, un altro di Ray Fisman e Tim Sullivan. Li ha recensiti un paio di settimane fa Lucy Kellaway per il «Financial Times». La stessa Kellaway, l’anno scorso, aveva condotto su Bbc-Radio Four una serie a puntate su 250 anni di storia dell’ufficio. E l’anno prima era uscito un libro del prolifico ed erudito Gideon Haigh intitolato proprio The Office: tra migliaia di immagini e citazioni ricordava l’idea che Balzac aveva dell’impiegato pubblico: «Il suo cielo è il soffitto verso il quale sbadiglia; il suo elemento è la polvere».
Luogo noioso e deprimente, insomma, l’ufficio, ma così centrale nelle nostre vite da suscitare gran discussioni e passioni forti, l’odio o l’amore: chi vorrebbe solo dimenticarlo e chi va nel panico all’idea di non avere la sua stanza, la sua scrivania, il suo cubicolo. «Prigione o santuario?», si chiedeva Lucy Kellaway. La questione però non finisce qui: l’ufficio e il suo destino determinano ben più dell’umore degli individui. Influiscono sull’economia, sull’organizzazione aziendale, sulla struttura sociale, sull’architettura e l’urbanistica, sulla tecnologia. È la banalità dell’ufficio a scrivere lunghi pezzi della nostra vita, per quanto lo si possa considerare l’ambiente della mediocrità.
L’ufficio ha una lunga storia: dai registri degli antichi egizi per tenere il conto degli schiavi e dei cereali agli organizzatori della logistica militare dei romani; dagli amanuensi nei conventi agli Uffizi di Firenze e ai banchieri europei. L’ufficio come lo intendiamo noi, però, è il frutto della rivoluzione industriale e delle innovazioni tecnologiche. I colletti bianchi e le loro scrivanie sono la parte pulita della fabbrica. L’artigiano rinascimentale teneva il libro dei conti, dopo Luca Pacioli anche la partita doppia: ma non aveva bisogno di una struttura per farlo e nemmeno di tanti impiegati per organizzare la produzione. È quando i mercati si allargano, soprattutto con la nascita dei commerci marittimi e poi della ferrovia, che il business ha bisogno di contabilità più complesse, di organizzazione e di logistica. Non basta più il padrone che dà un ordine a un dipendente che lo esegue. Nascono strutture che si occupano del funzionamento dell’impresa. Uffici sempre più grandi che agiscono in nome dei proprietari senza essere proprietari: luoghi tecnici organizzati su basi gerarchiche, con l’apparizione nella prima metà dell’Ottocento della figura del manager.
Il modo di lavorare negli uffici del capitalismo nascente è abbastanza casuale, poco razionale. Via via, però, la specializzazione prende piede: le tecnologie determinano il modo di lavorare e l’organizzazione tayloristica della produzione si allarga dalla fabbrica all’ufficio. I commerci, le navi e i treni, il telegrafo, il telefono creano nuove esigenze e metodi di controllo del sistema produttivo e distributivo delle merci. La macchina per scrivere, la calcolatrice, la luce elettrica permettono di creare uffici nei quali — come gli operai in fabbrica — schiere di colletti bianchi eseguono un’unica funzione: battere a macchina lettere, fare calcoli, riempire faldoni, trasmettere ordini. E attorno a queste industrie fioriscono imprese di soli uffici: banche di grandi dimensioni; compagnie d’assicurazione che vanno al di là dei Lloyd’s di Londra, dove il rischio lo prende un individuo; sistemi di trasferimento del denaro. L’ufficio si afferma come nodo centrale nella catena di comando e di amministrazione dell’economia, spesso anche come struttura tecnica. Al sovrintendente, figura mutuata dall’economia agricola, si sostituisce prima il capufficio e poi, sempre più, il manager, che non solo esegue e fa eseguire gli ordini del proprietario, ma prende decisioni in proprio per garantire il funzionamento dell’azienda non sua.
Quando arrivano l’ascensore e l’architetto Louis Sullivan nascono le prime costruzioni pensate solo per ospitare uffici: nascono le New York e le Chicago che toccheranno il cielo nel XX secolo. Per fare spazio a grandi masse di colletti bianchi i grattacieli salgono, i piani si specializzano per funzioni e l’architettura stessa trova espressione nel razionalismo che Sullivan riassumerà nella dottrina «la forma segue sempre la funzione». L’ufficio, insomma, diventa centrale nella vita di milioni di persone; crea l’anima e il volto stessi di molte città, in America ma anche in Europa seppure con meno piani; diventa il cuore del funzionamento e del controllo del capitalismo. Ci sono casi eccezionali nei quali gli uffici sono pensati e organizzati attorno alle caratteristiche e alle esigenze di chi ci lavora, per valorizzarne le capacità: è il grande caso del complesso di Ivrea voluto da Adriano Olivetti. In genere, però, gli uffici funzionano sulla base di un’idea militare dell’organizzazione, top-down: file di scrivanie allineate, orari di lavoro rigidi, divieto di conversazione, un controllore arcigno.
Inevitabile la reazione. E forse inevitabile che germogli nella Germania post-bellica e post-nazista: ad Amburgo nasce l’idea del Bürolandschaft, della progettazione dell’interno dell’ufficio, con la frammentazione dell’open-space, la creazione di aree di interazione tra impiegati, l’introduzione di piante e fiori e tappeti. Siamo sostanzialmente agli uffici di oggi, come ieri luoghi di lavoro della middle-class, dello stipendio invece che del salario e, soprattutto, della possibilità di fare carriera, a differenza che alla catena di montaggio. Siamo ai cubicoli di milioni di aziende ma anche in fondo ai fantastici quartier generali di imprese come Google e Microsoft: sempre il frutto dell’evoluzione del Bürolandschaft. Il ruolo del colletto bianco è cambiato: è più istruito, ha un maggiore controllo su parti intere del processo produttivo, è più esigente, ha bisogno di un ambiente che aiuti l’espressione della sua creatività, la quale ha un valore.
Ma, di base, l’ufficio resta un ufficio anche nella Silicon Valley: riunioni, scrivanie, computer, bar interni, corteggiamenti, gerarchie anche se meno formali. Ci sono più donne rispetto a un secolo fa; più sneaker e meno scarpe lucide, il concetto di dress for success è cambiato; scompaiono i fax e i correttori; non si fuma più. Ma i piccoli giochi di potere restano, le scritte e gli slogan motivazionali anche, si continua a imparare dai più bravi e pure il gossip quotidiano è sempre in gran forma. E il sesso. In una delle prime istituzioni della storia fortemente strutturate per uffici, la Bank of England di Threadneedle Street a Londra, una ventina di anni fa il vicegovernatore Rupert Pennant-Rea fu costretto a dimettersi quando la sua amante raccontò ai tabloid di rapporti sessuali, con lui, avvenuti sul tappeto dell’ufficio del boss, il governatore Eddie George. Un uso, da parte di Pennant-Rea, dissacrante e straordinariamente britannico dell’istituzione, della gerarchia e dell’ufficio stesso, anche se non era il suo. Pure a questo sono sempre serviti e servono gli uffici, open-space o meno. Una ricerca del 2011 commissionata dagli Avvocati Matrimonialisti indica che in Italia sei tradimenti su dieci hanno origine sul posto di lavoro.
È questo il complesso mondo di stress e sesso, di alienazione e interazioni sociali che siamo destinati a perdere con la fine dell’ufficio? Reso inutile dall’email, dai cellulari, dai tablet, dal wi-fi, da Starbucks e dalla panchina del parco, nuovi uffici post-industriali? In una logica lineare della storia, occorrerebbe rispondere di sì. Alla scomparsa tendenziale della fabbrica potrebbe corrispondere la scomparsa dell’ufficio. Il moltiplicarsi delle megalopoli che costringono a ore di pendolarismo dovrebbe spingere in questa direzione, al lavoro a distanza, forse meno in Paesi come l’Italia dove gli spostamenti sono più contenuti, di certo in Asia, in Africa, nelle Americhe. E le nuove tecnologie rendono possibile svolgere una serie di funzioni in autonomia — o in solitudine — ma sempre connessi.
Milioni di persone, in fondo, vivono con l’ufficio portatile che ha già distrutto il modello tradizionale di lavoro dalle-nove-alle-cinque e ha creato il sempre più diffuso 24×7: chi scrive e fa di conto in treno e in aereo; il dipendente dell’Ups che ha il terminale sul furgone; il consulente che lavora da casa. Dall’altra parte, però, le grandi corporation, anche le più innovative e hi-tech, non stanno chiudendo gli uffici: al più li integrano in modo che possiate lavorare anche quando non siete in azienda. Frederick Taylor diceva che i dipendenti vanno controllati dal capufficio e la quantità del loro lavoro misurata. Oggi direbbe che è la creatività a dovere essere controllata e misurata: non più dall’acido e occhiuto cane da guardia seduto alla scrivania più alta, ma con un aggeggio mobile che si chiama tablet o smartphone, nuovi signori dell’ufficio «allargato» nell’economia del sapere.
Insomma, per il momento l’ufficio non è morto e non è ancora zombie. È un’altra volta in evoluzione: ancora centrale nell’organizzazione del capitalismo ma sempre meno rigido, più aperto, luogo dal quale si va e si viene. Anzi, al momento si sta espandendo, almeno per molti impiegati: ha superato i suoi muri per entrare in quelli di casa nostra, ha rotto la gabbia degli orari fissi, ha frantumato la barriera che c’era tra il tempo di lavoro e il tempo di non lavoro, ha fatto un takeover sugli spazi privati e se n’è impossessato. Non per tutti è così: alcuni, anzi molti, hanno ancora una sola scrivania e quando posano la penna hanno finito la giornata. Scegliete voi: fortunati o mediocri?