Paolo Valentino, Corriere della Sera - La Lettura 27/4/2014, 27 aprile 2014
GUGGENHEIM GUGGENHEIM
Al suo amico adorato André Breton, che la implorava di prestarle un Picabia, un Dalí e un Ernst per una mostra, Peggy Guggenheim rispose con un rifiuto sdegnato, spiegando che lei non prestava mai la sua collezione in pezzi separati: «Fanno parte di un insieme, che voglio esporre soltanto nella sua totalità». Aveva idee chiare e precise, la Dogaressa, come i veneziani avevano ribattezzato la vulcanica ereditiera americana, l’ineguagliata falena che ha attraversato il secolo breve collezionando voracemente mariti, amanti, cani e soprattutto opere d’arte contemporanee, fino a mettere insieme uno dei più straordinari ensemble di capolavori del Novecento.
Il luogo ideale per l’unità inseguita nell’arco di una vita spesa «alla ricerca dell’impossibile», Peggy l’aveva trovato in Laguna. La folgorazione l’aveva avuta tornando in Europa, alla fine della guerra: «In viaggio decisi che Venezia sarebbe stata la mia patria futura», raccontò nelle sue memorie. Fu a Palazzo Venier dei Leoni, l’edificio incompiuto sul Canal Grande acquistato nel 1948, che la figlia di Benjamin Guggenheim, il tycoon morto nell’affondamento del Titanic, si installò e visse fino alla morte insieme ai suoi cubisti, futuristi, surrealisti, espressionisti astratti, da Picasso a Leger, da Magritte a Kandinski, da Chagall a Klee, da Mondrian a Pollock. «Non sono una collezionista, sono un museo», amava dire di se stessa. Anche se questo non le impediva di intrattenere e spesso di concupire artisti e intellettuali da ogni parte del mondo. E quando, nel 1976, tre anni prima della scomparsa, al termine di un negoziato tempestoso, decise suo malgrado di donare il lavoro di una vita alla Solomon Guggenheim, la fondazione newyorkese creata dall’omonimo zio, Peggy impose condizioni precise. Prima fra tutte, che la raccolta rimanesse intatta, «com’era e dov’era», comprese la testata del suo letto e la collezione di enormi orecchini-mobile, tutte opere di Calder.
Unica eccezione smontabile, il sesso di notevoli dimensioni dell’Angelo della Città , il cavaliere di bronzo di Marino Marini posto di fronte all’imbarcadero del palazzo sul Canal Grande, che Peggy stessa si faceva scrupolo di staccare per deferenza, ogni qual volta il passaggio di una processione religiosa imponeva un atteggiamento consono e scevro da oscenità anche all’opera d’arte.
Sono passati 35 anni. Ma le ceneri di Peggy Guggenheim, sepolte nel giardino della dimora veneziana proprio accanto a quelle dei suoi cani, fumano probabilmente di sdegno, di fronte alla lite giudiziaria che si sta consumando intorno alla sua collezione e potrebbe anche cambiarne drammaticamente il destino, dimora inclusa.
Sette dei suoi eredi, tutti collegati ai due mariti della figlia Pegeen, morta tragicamente nel 1967, gridano alla «profanazione di sepolcro» e accusano la Solomon Guggenheim di aver disatteso le condizioni del lascito, accettando altre donazioni, come la collezione privata di Hannelore e Rudolph Schulhof, esponendo solo parzialmente le opere di Peggy, accettando di darne alcune in prestito, non ultimo modificando la struttura originaria di Palazzo Venier dei Leoni, con l’apertura di una nuova ala e l’acquisto di un annesso esterno, che oggi ospita la caffetteria del museo. I sette cavalieri dell’Apocalisse chiedono né più né meno che la revoca della donazione. Una corte di Parigi, riconosciuta competente in materia, comincerà ad occuparsi del caso il 21 maggio prossimo.
«Noi vogliamo restaurare la memoria di Peggy, facendo in modo che venga rispettato e onorato il contratto originario», dice Sinbad Rumney, uno dei pronipoti querelanti, che accampano di voler fermare la «deriva commerciale» della gestione americana. «Non c’era alcuna condizione associata al lascito, come riconosciuto da una corte francese già nel 1994», replica la Solomon Guggenheim in una dichiarazione ufficiale, riferendosi al protocollo firmato vent’anni fa, nel quale si impegnava a consultare gli eredi nel caso di modifiche alla disposizione delle opere. Inoltre, esprimendo la sua profonda delusione e annunciando di volersi «difendere con vigore» dall’accusa, la fondazione newyorkese rivendica il merito di «aver fedelmente e coerentemente onorato lo scopo della donazione, quello di espandere e diffondere l’apprezzamento per l’arte moderna che Peggy amava».
Venezia assiste incredula e preoccupata a una disputa legale, nella quale non ha nulla da poter dire nel merito e moltissimo da perdere. In quasi quattro decenni, la Peggy Guggenheim Collection è diventato il gioiello della corona dell’arte del Novecento in Italia. Una collezione permanente di 300 opere, arricchita da prestiti a lungo termine, come i 26 dipinti della Fondazione Gianni Mattioli, fra cui alcuni capolavori del futurismo italiano, o le 80 opere d’arte europea e americana del secondo dopoguerra, donate dai coniugi Schulhof. E poi le sculture di Moore, Giacometti e altri artisti, ospitate in giardino e regalate da Patsy e Raymond Nasher, quelle che, per la vicinanza alla tomba di Peggy, hanno motivato nero su bianco negli atti la strampalata accusa di «violazione di sepolcro». E ancora, le donazioni di privati, musei, fondazioni, fra cui la stessa Solomon Guggenheim, o le mostre temporanee che negli anni hanno contribuito a scandire l’agenda culturale globale.
«Quella della fondazione — dice a “la Lettura” Renata Codello, soprintendente ai Beni culturali di Venezia, nel suo incredibile ufficio a Palazzo Ducale — è stata una gestione rigorosa e ineccepibile, perfettamente in linea con lo spirito di Peggy. Un collezionista è per definizione insaziabile, vuole superarsi, creare valore. Lei ha sempre cercato e collezionato il meglio dell’arte del suo tempo. La sua casa era un santuario e al contempo l’incarnazione del suo rapporto con l’arte e la vita. Dunque, fare in modo che alla Guggenheim ci siano sempre opere rappresentative dello Zeitgeist significa rispettare in pieno la volontà sostanziale di Peggy».
«Che cosa sarebbe Palazzo Venier dei Leoni se tutto fosse rimasto cristallizzato all’epoca in cui Peggy Guggenheim è morta?», si chiede l’assessore alla Cultura, Angela Vettese. Risposta facile e inquietante: «Un cadavere, un luogo ossificato, invece di continuare a essere il posto di scambio, dove la crema dell’arte contemporanea ha ancora una casa per ritrovarsi e confrontarsi. Se l’idea è di rendere omaggio a una persona che è sempre stata all’avanguardia, non si può rimanere indietro, congelandone il lascito».
Un aspetto importante, che indebolisce l’argomento degli eredi, è l’effetto di volano e apripista che il dinamismo della Peggy Guggenheim Collection in questi ultimi vent’anni ha prodotto sulla scena culturale della città, elettrizzandola proprio come voleva la mecenate americana. Sono quasi una decina le fondazioni che seguendone la scia si sono insediate sulla Laguna, contribuendo a fare di Venezia un palcoscenico artistico vibrante e ambito: Pinault, Prada, Wilmotte, Vedova, solo per citarne alcune, mentre la storica Fondazione Cini ha moltiplicato per quattro il suo impegno.
Gli eredi difendono la loro azione. Come ha spiegato a «le Monde» Laurence Tacou, ex moglie di uno dei nipoti di Peggy, se la giustizia francese accogliesse la loro richiesta, revocando la donazione, si impegnerebbero a creare «un comitato direttivo per il museo, dove siederebbero personalità del mondo dell’arte, rappresentanti del ministero dei Beni culturali italiano e della famiglia».
Ma non è chiaro per far cosa. Angela Vettese ricorda che Peggy, al momento della morte, lasciò agli eredi i mobili e gli arredi della casa e che questi li portarono subito via: «Nella causa intentata alla Fondazione non ho letto alcuna proposta culturale, l’unica cosa che propongono è il ritorno a uno status quo ante , che loro stessi contribuirono a smantellare». L’assessore pensa che si tratti di «un’azione di disturbo, probabilmente finalizzata a ottenere denaro». Ne è sicuro invece l’ex sindaco Massimo Cacciari: «Non ho dubbi: non sono interessati a nulla, puntano solo ai soldi. Quella degli eredi è un’operazione risibile e ridicola, fondata su un argomento strumentale, che va contro la volontà di Peggy Guggenheim. L’arricchimento artistico della collezione era inevitabile nel corso degli anni, l’ha tenuta viva e ha tenuto viva la città».
Strumentale o meno, l’opzione nucleare di una sentenza di revoca rimane una delle possibilità sul tappeto. «Sarebbe un danno enorme. Tutto — dice Renata Codello — sarebbe appiattito a un banale litigio familiare ed economico. A parte il fatto che si tratta di opere catalogate e sottoposte a vincolo, che dovrebbero comunque rimanere a Venezia, anzi a Palazzo Venier dei Leoni, anche perché c’è un’unità di luogo e capolavoro: la collezione va con la casa e toglierla da lì sarebbe il vero tradimento della volontà di Peggy. Ma spero che il tribunale giudichi non limitandosi ai soli aspetti tecnico-giuridici e ponderi bene il fatto che una collezione d’arte non si eredita come si eredita un comò».