Marco Meneguzzo, Avvenire 28/4/2014, 28 aprile 2014
GILLO DORFLES, IL MERCATO DELLA LEGGE
Quali sono stati i grandi rivolgimenti del secolo scorso? Che cosa ha cambiato il modo di pensare?
«Kandinskij, e poi Mondrian sono stati una rivoluzione immensa. Un cambiamento importante è stato l’abbandono provvisorio della figurazione».
Perché dici provvisorio?
«La figurazione non è mai finita, e non finirà mai. Oggi sebbene paradossale e grottesca, c’è ancora» .
La figura di Duchamp quanto è importante?
«Tutti coloro che hanno fatto questo tipo di ricerca oggettuale, escono fuori dal discorso sulla pittura e sulla scultura.
Ma non esce fuori dell’arte!
«Certo che vi rientra, ma a margine».
Non pensi che questa marginalità abbia spinto, in realtà, al margine la pittura e la scultura?
«Fa parte della cultura di quegli anni».
Se tu vai a una fiera d’arte, trovi meno pittura e scultura di tutto il resto. Tutto questo deriva da Duchamp.
«Duchamp è stato un grande. È difficile dire sino a che punto delle installazioni hanno il diritto di essere considerate arte, sono delle forme d’arte ai margini».
Quindi non sei d’accordo con ciò che diceva Dino Formaggio, che è arte tutto ciò che è stato definito arte.
«Non sono del tutto d’accordo. Sono definite arte, cose che sono tutt’altro».
Esiste una definizione di arte?
«Non basta dire che una cosa è arte perché lo sia. Non solo, ma molte cose che sono spacciate per arte, sono maniera o abilità tecnica».
Anche per questo vale la tua definizione iniziale di inventare un’immagine.
«Molti nudi, disegnati e scolpiti in maniera egregia non hanno niente di artistico. Non sono invenzione di una forma nuova».
Se noi fossimo radicali nell’approccio all’arte, e pensassimo che lo sia solo l’invenzione di qualcosa di nuovo, non credi che scomparirebbe il 95% delle forme artistiche?
«Certo, indubbiamente».
Rientrerebbero in un generico mercato? In un generico sistema?
«Interi periodi artistici sono destinati a scomparire. Quando vidi all’associazione Corrente una decina di anni fa, i soliti da Birolli in poi – il periodo dopo l’Impressionismo e prima dell’astrazione – pensai fosse pittura destinata a non esistere».
Non sei un po’ drastico. Non è possibile trovare qualcosa anche in un dipinto mediocre?
«Non c’era più la ragione di imitare la natura, né quella di fare qualcosa di non realistico, c’era solo un mettere insieme. Che scopo c’è a fare dipinti come Ernesto Treccani?».
Un’altra provocazione: Renato Guttuso.
«È diverso. Guttuso, che ho conosciuto molto bene, era un vero pittore. I suoi quadri giovanili erano bellissimi come pittura tout court, poi ha continuato con delle figurazioni sempre più accademiche, esempio i grandi nudi. Ho avuto con lui dei rapporti molto stretti, contrariamente a quello che le persone credono. Infatti lui un giorno si lamentò e mi chiese perché parlavo di tutti eccetto che di lui. Gli risposi che lo stimavo moltissimo ma trovavo sbagliato ciò che faceva allora nel periodo del dopoguerra. Ci rimase male. Credo che sia un notevole pittore, ho visto in un appartamento dei suoi lavori giovanili, bellissimi».
Tu non hai mai utilizzato un potere fuori dalla pittura, per affermare la tua pittura. Invece lui sì, attraverso il potere del partito comunista.
«Comunque resta un grande pittore».
Che rapporto c’è tra arte e design o tra arte e architettura?
«C’è un’affinità notevole. Il design è architettura. L’architettura ha degli aspetti anche pittorici. C’è una base di visualità comune, anche se in parte si ha un compromesso con la pratica e la sensibilità ambientale. C’è interscambio tra architettura e pittura».
Mentre vi sono relazioni con la musica e la letteratura?
«Esistono delle metafore, ma hanno solo un senso letterario. Non c’è comunicazione con queste discipline».
Prendendo spunto da questa incursione in discipline affini o meno, mi pare che nei tuoi scritti sia sempre forte l’attenzione all’intorno dell’arte, ai comportamento sociali che implicano l’uso di categorie visuali ed estetiche, come la pubblicità. D’altro canto, però, sei anche drastico nel distinguere cosa sia e cosa non sia arte. Nei tuoi giudizi, creatività umana e disciplina artistica sembrano talvolta essere cose lontane tra loro...
«Ho sentito molto vicina la pubblicità, durante tutta la mia attività, e l’ho sempre molto rispettata, considerando i nomi di prim’ordine che l’hanno costruita. Penso ad Armando Testa, a Erberto Carboni, o anche a Marcello Dudovich, se vogliamo andare indietro nel “medioevo” della pubblicità: sono artisti che si sono espressi quasi solo attraverso la pubblicità, inserendo cioè nella pubblicità delle caratteristiche artistiche che non sempre la pubblicità possiede».
Quel che ti chiedo, però, è la distinzione tra creatività, pubblicità e arte…
«La pubblicità ha un quid che l’arte non necessita di avere: attrarre l’attenzione sopra un prodotto, una causa, una persona, e questo elemento è fondamentale. Una volta, Testa fece una grande mostra a Milano dei suoi lavori pittorici, lasciando in ombra le creazioni pubblicitarie, e voleva sapere da me cosa ne pensassi: quando gli ho detto che i lavori “artistici” non erano all’altezza di quelli “pubblicitari” si risentì un poco...»
Quindi la qualità che distingue l’arte da ogni altra disciplina affine è la sua “indifferenza” a uno scopo...
«Certo. L’arte non deve dimostrare nulla».
Negli ultimi anni ti ho sentito dare dei giudizi molto duri su certi aspetti dell’arte contemporanea. Come ti trovi di fronte a degli aspetti dell’arte contemporanea come ad esempio una linea che va da Andy Warhol a Jeff Koons, da Damien Hirst a Maurizio Cattelan. Che cosa pensi di questo tipo di arte?
«C’è questo lato autopubblicitario che non si può negare completamente, oppure rifiutare. Alcuni di questi artisti – Warhol ne è ancora l’esponente più tipico –, hanno bisogno di questa autopubblicità, in un senso positivo. Non v’è dubbio che Warhol sia molto interessante e tipicamente autopubblicitario ».
Secondo te è una categoria questa dell’autopubblicità?
«Perlomeno è una tipologia di artisti che sentono il bisogno di autoesibirsi, a differenza di altri che invece si nascondono o hanno paura di esprimersi ufficialmente ».
Faresti rientrare in questa categoria personaggi come Salvador Dalí, Yves Klein e Piero Manzoni?
«Indubbiamente. Dalí è stato la pubblicità di sé stesso al di fuori del suo valore effettivo».
E invece uno come Lucio Fontana, lo metteresti tra questi?
«No perché Fontana era troppo ingenuo per fare l’autopubblicitario. Credo che con tutta la possibilità autopubblicitaria che aveva non l’abbia mai fatto, coscientemente».
Non pensi che il valore di un artista venga definito da elementi estranei, o almeno esterni alla critica?
«Indubbiamente. Il mercato dell’arte oggi gioca in modo molto diverso che un tempo. Una volta c’erano il papa, i re, i potenti che puntavano su determinati artisti che diventavano importanti, a patto che ci fosse una qualità evidente, manifestata attraverso i canoni del tempo. Oggi, la frammentazione e l’incoerenza del mercato non possono più fornire la sicurezza che la via indicata, che le scelte fatte siano quelle giuste».