Giuseppe De Rita, Corriere della Sera 27/4/2014, 27 aprile 2014
IL MONDO ANTICO DELLE IMPRESE DI STATO
Forse non è inutile tornare a mente fredda sui processi reali che hanno presieduto le nomine nelle più importanti aziende pubbliche. Eravamo abituati da decenni a vedere in esse il fulcro dell’intreccio fra politica e sistema di imprese; e quindi senza sorpresa avevamo notato la determinazione con cui l’attuale premier aveva voluto metterci mano. Dopo di che abbiamo avuto due-tre giorni di curiosità sui nomi scelti e poi è arrivato il torpore su ogni possibile decifrazione di ciò che è avvenuto.
Per superarlo è utile avanzare alcune riflessioni: sui tre processi che hanno fatto da motore alle nomine; e sui due poteri che in proposito non hanno dato segno di sé.
Tre sono le opzioni che son state dietro le scelte compiute: premiare le carriere interne, senza timore di coltivare il tanto deprecato continuismo; premiare la componente femminile, senza timore di giuocare troppo sulla moda di genere e sulla dimensione mediatica delle protagoniste; e ripetere la spartizione «cencelliana» dei designati nei consigli d’amministrazione, senza timore di vedersi accusati di qualche premio ad personas . Tre opzioni che hanno la loro giustificazione, ma che rendono la scelta non molto innovativa e di scarso significato nella crescita della nostra classe dirigente.
E qui si entra nei due processi che non hanno dato segno di sé. Anzitutto l’indirizzo politico, visto che non c’è stato, neppure in termini impliciti, un messaggio di obiettivi da perseguire e di scelte strategiche da applicare. Nomine quindi senza mandato e senza mission. È ben vero che da tempo non circola uno straccio di politica o pensiero industriale, ma la particolare e strategica collocazione delle aziende interessate avrebbe meritato che la politica dicesse «quello che vuole». Ma la carenza di cultura e di politica industriale non è stata evidente solo in chi ha deliberato le nomine, ma anche nella più generale classe manageriale italiana. Il fallimento guadagnato in merito dalle società di cacciatori di teste non è infatti dovuto solo al ruolo tutto subalterno ad esse riservato; ma anche e specialmente al fatto che esse non avevano un adeguato parco di candidati: troppi i candidati mediocri e in più confusamente coinvolti, mentre i nomi potenzialmente di livello erano pochi e in più non molto propensi ad accettare. In sintesi, la politica non ha dato indirizzi, ma la classe manageriale non si è mostrata interessata.
Tutta la vicenda ha quindi mostrato che mentre c’è ricchezza e motivazione nelle imprese che lavorano sui mercati esteri, non altrettanto di motivazione e qualità esiste nelle imprese pubbliche, quelle che vivono pelle pelle con la complicata realtà italiana e con le relative debolezze sociopolitiche. Forse è arrivato il momento di dire che si è avviato il declino di interesse collettivo per un mondo, quello della azienda a partecipazione pubblica, che pure ha cambiato l’Italia del Dopoguerra e ha dominato la vita pubblica per quasi cinquanta anni.