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 2014  aprile 26 Sabato calendario

METAFISICA DELLA BRUGHIERA DOVE GLI UOMINI SONO FANTASMI


In apparenza, la natura e i capolavori di Thomas Hardy obbediscono alla forza del ciclo. «Sopraggiunse — racconta Tess dei d’Urberville — una primavera particolarmente bella, e il tumulto della germinazione divenne quasi udibile nelle gemme: esso mosse Tess come muoveva gli animali selvaggi e la rese impaziente di partire. I raggi dell’aurora facevano sbocciare le gemme, prolungandole in lunghi steli, sollevavano le linfe in silenziose correnti, aprivano i petali, succhiandone fuori i profumi in getti e respiri invisibili». La vita trionfale della natura era evidente in tutto ciò che esisteva di minuzioso, minuscolo e molecolare: le nebbie di polline sollevate dalle erbe succose, la policromia delle erbacce, le gommosità vegetali, le lebbrosità vischiose, le ondulazioni delle ragnatele, il luccichio delle zanzare vaganti. Dovunque, in ogni punto, c’era gioia e felicità che poteva riempire il cuore anche di chi, come Tess, era condannata all’estrema sventura.
D’estate il sole splendeva nella brughiera, e pareva che incendiasse, rendendola scarlatta, la fioritura dell’erica. Era l’unica stagione dell’anno in cui la brughiera assumeva un aspetto sfarzoso. L’aria palpitava in silenzio, opprimendo la terra che sembrava sfinita. Il cielo era di un color violetto dai riflessi quasi metallici. Nel fango si potevano scorgere distintamente le forme, simili a larve, di innumerevoli esseri senza nome, che ne emergevano e si rituffavano, ebbri di piacere. Non si vedeva in giro anima viva, sebbene le note rauche e intermittenti delle cavallette, che uscivano da ogni ciuffo d’erica, bastassero a dimostrare che, mentre gli animali più grandi dormivano, tutto un mondo invisibile di insetti si agitava nella pienezza della vita. In quell’atmosfera, più greve di un narcotico, i merli e i tordi non aprivano le ali, ma si trascinavano come quadrupedi nella polvere.
Esisteva un’altra stagione: quella indeterminata della brughiera. Essa era sempre fosca e cupa. Col suo colore aggiungeva un’ora e mezza alla sera: faceva ritardare l’alba, attenuava lo splendore del mezzogiorno, anticipava il cipiglio dei temporali, rendeva più intensamente opaca la profonda notte senza luce, causando uno sbigottito terrore. Mentre le altre cose si immergevano nel sonno, pareva che la brughiera si destasse lentamente mettendosi in ascolto. Aveva atteso, così immota, attraverso le crisi di tanti anni, che poteva attendere un’ultima crisi: lo sconvolgimento finale. Aveva qualcosa di maestoso, ma non scostante, che colpiva senza ostentazione: vigoroso nei suoi richiami, grandioso nella sua semplicità. Era gigantesco e misterioso nella sua tetra monotonia. Come accade a persone vissute a lungo isolate, un senso di solitudine pareva emanare dal volto della brughiera, che faceva pensare a tragiche possibilità. Queste possibilità erano rivelate dalle vampate di rosso che attraversano tutti i libri di Hardy: fiamme, piccoli e grandi falò, incendi, oppure un misterioso venditore, col volto e le vesti tinte d’ocra, che percorreva le colline del Wessex.
Nella fattoria di Flintcomb-Ash si rivelava la desolazione dell’inverno. Non c’era un solo albero in vita né un solo tocco verde: null’altro che terra incolta e distese di rape, in vasti campi divisi da siepi intrecciate con monotonia. Le spine delle siepi avevano abbandonato l’aspetto vegetale per assumerne uno animale. Su quella desolazione giunse un incantesimo di gelo secco, in cui strani uccelli sopravvenuti da regioni oltre il polo australe cominciavano ad arrivare silenziosamente sull’altopiano: magre creature spettrali dagli occhi tragici, occhi che avevano contemplato scene di cataclismi in regioni polari inaccessibili, di un’immensità inconcepibile agli esseri umani, in temperature raggelanti che nessun uomo poteva sopportare; occhi che avevano veduto l’urto degli icebergs e lo smottamento di colline di neve alla luce delle aurore boreali.
Dovunque Hardy e i suoi personaggi guardassero, perfino nell’incantevole primavera, non scorgevano che sventura. La natura stessa era intessuta di sciagure: non solo umane, ma animali e vegetali. Fuggendo, Tess si nascose tra il fogliame di alcuni cespugli di agrifoglio, dove cadde nel sonno. Mentre dormiva, le pareva di udire strani rumori: forse era il vento, benché l’aria fosse quasi immobile. Talvolta sembrava un palpito, talvolta uno sbatter d’ali, talora una sorta di respiro affannoso e di gorgoglio. La mattina Tess uscì alla luce. Allora comprese cosa l’aveva disturbata. Sotto gli alberi giacevano parecchi fagiani: alcuni torcevano debolmente un’ala, alcuni fissavano con occhi sbarrati il cielo, altri erano scossi da un palpito febbrile, altri giacevano contorti, altri ancora distesi: tutti tremavano di sofferenza, all’infuori di quei fortunati che erano morti durante la notte per l’impossibilità di sopportare più oltre il dolore. Questa era la natura: ferite, crudeltà, strazio, assassinio, che essa sembrava infliggere a se stessa, servendosi di qualsiasi strumento.
Sopra la natura stava qualcosa di inattingibile: un Dio, un Potere, gli Immortali, o il Presidente degli Immortali, come diceva Eschilo, o il Destino. Non aveva nessuna importanza come gli uomini si comportassero: se fossero virtuosi o peccatori, o peccassero solo per inavvertenza. Lassù, il Destino o gli Immortali condannavano senza motivo, preparando per l’uno la facile strada che portava senza fatica tra i beati, e per l’altro il sentiero che conduceva, in vita, tra i tormenti più atroci. Gli uomini, come Tess dei d’Urberville, chiedevano giustizia, grazia, bontà, remissione, pace: o almeno riposo; nulla veniva concesso loro, perché gli Immortali e il Destino continuavano a divertirsi alle loro spalle.
In un romanzo di Hardy il Destino agisce come un fabbro macchinoso e malvagio, ribadendo una catena di piccoli fatti assurdi, di coincidenze miracolose, di avvenimenti e di persone che ritornano, di segni uniformemente negativi. Il primo anello della catena di Tess sembra innocente: quando un parroco rivela a un contadino del Wessex che egli discende dai potenti cavalieri dei d’Urberville che dormono inconsapevoli, sotto alti baldacchini di marmo, nella navata della chiesa di Kingsbere. Questa rivelazione deve svegliare una bizzarra collera nelle nuvole sopra le quali ha preso posto Hardy, se, a partire da questo momento, i segni negativi si infittiscono. Un cavallo muore: un uomo dipinge i muri e le staccionate del Wessex con rosse scritte bibliche, che fiammeggiano e urlano come frasi diaboliche: il gallo canta tre volte nel pomeriggio del matrimonio di Tess: un pezzo di carta insanguinata vola davanti ai suoi occhi: i cognati le rubano un paio di scarpe; fino a quando tutti i segni si realizzano, e la rossa vernice del fanatico si trasforma nella macchia di sangue che chiude la sua vita. Ad imitazione dell’opera della sorte, il libro di Hardy è costruito con una minuziosa sapienza artigiana: come, del resto, gli altri romanzi ottocenteschi consacrati al destino, il Meister e Madame Bovary . Ma mentre Goethe e Flaubert ne mascheravano ironicamente il passaggio, Hardy lo annuncia con una passione apostolica, e la sua fantasia visionaria si accende proprio nei punti dove il destino ribadisce, senza svelarsi alle proprie vittime, la catena irrimediabile della loro esistenza.
Dentro questa trama di avvenimenti fatali, Hardy raccoglie il ricco e libero spettacolo della vita. I personaggi dei suoi romanzi sono in primo luogo dei volti, dei vaghi e possenti fantasmi corporei, apparsi nel minaccioso silenzio delle notti. Se pensiamo a Tess, questo personaggio immensamente amato, descritto in tutte le pose, piangente, col viso intiepidito dal sonno o mentre immerge le braccia rosee nella bianchezza immacolata del latte cagliato, — ricordiamo il disegno della sua «profonda e rossa bocca carnosa»: la involontaria mossa del labbro inferiore che spinge verso l’alto il punto centrale di quello superiore: «i grandi occhi teneri, né neri né azzurri, né grigi né violetti, ma composti di tutti questi colori insieme e di cento altri che possono distinguersi,... gradazione su gradazione, tinta su tinta, intorno a pupille senza fondo»; o, se l’ala della sventura la sfiora, la sua pallida bellezza marmorea. Mentre il romanzo si svolge, l’umile lattaia del Wessex acquista la nobiltà tragica di una regina elisabettiana, e metafore seicentesche o romantiche prorompono come una fioritura inaspettata dal suo cuore esultante o ferito.
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Quando leggiamo Tess dei d’Urberville , ci sembra che i tesori di immaginazione visionaria, che da secoli si erano annidati in ogni angolo della campagna inglese, si ridestino clamorosamente. La solenne fantasia architettonica che aveva creato i pilastri e altari di Stonehenge; la fantasia superstiziosa, che serpeggiava nelle foreste druidiche; l’ebbrezza alcoolica che scintillava sulle scene elisabettiane; le avventure del romanzo settecentesco, da Defoe a Richardson, le più fosche invenzioni romantiche — tutto quanto era esistito di meravigliosamente e assolutamente anglosassone si dà convegno in queste brughiere, in questi campi funestati dall’inverno o intiepiditi dalla dolcezza dell’autunno. Come se i romanzi di Hardy fossero l’ultima cittadella posseduta dall’immaginazione prima di lasciare la terra, ecco che i re-pastori della Bibbia, gli dèi delle tragedie greche, gli eroi dei rustici poemi cavallereschi, un Cervantes smarritosi nelle osterie, un Rembrandt delle campagne giungono anch’essi qui, come in un corteo di re magi, lasciando i loro omaggi, le loro trame romanzesche, le loro complicate metafore.
Uno scrittore dal talento meno robusto si sarebbe lasciato travolgere da questa eredità pericolosa. Hardy non teme nulla di quanto la fantasia umana, o quella di Dio, abbia inventato. Sopra ogni cosa imprime il proprio sigillo di fuoco: colma, deforma, agita con la sua mano sicura, selvaggia e accecante. Quando deve descrivere una trebbiatrice a vapore, possiamo essere certi che la trasformerà in una creatura infernale: un contadino che vernicia di rosso le staccionate, l’ardore dei carboni che illumina un bel volto femminile, due lacrime che scendono da occhi addolorati acquistano nelle sue pagine un’intensità allucinatoria, quasi che, fino a quel momento, non avessimo mai visto un oggetto né un volto. Poi lascia ogni freno: ciò che è assurdo e bizzarro, sinistro e spettrale — sonnambuli che attraversano fiumi in piena con la donna amata sulle braccia, creature dormienti sopra altari primordiali — attrae la sua arte. Se qualcuno gli avesse obiettato che i suoi romanzi sono inverosimili, egli avrebbe risposto che anche Shakespeare è inverosimile: che né Otello né Macbeth si comportano come tranquilli gentiluomini, e che il compito del romanziere è proprio quello di ricordarci quale martellante fragore di tuoni, quale splendore di fulmini possono colpire all’improvviso la nostra esistenza.