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 2014  aprile 26 Sabato calendario

CAPITALI IN FUGA, ALTI TASSI PER PUTIN IL CONTO È SALATO (MA PER ORA PUÒ PAGARLO)


La Russia non è più il Paese chiuso, quasi autarchico che era l’Unione Sovietica. È un punto chiave, questo, per capire la strategia di Vladimir Putin, sul piano economico oltre che su quello geopolitico. Il presidente russo sa che il suo Paese è uno dei più attraenti del pianeta per gli investitori internazionali. Ed è convinto di avere un alleato neanche troppo nascosto nel big business occidentale, in qualche caso una quinta colonna. Può darsi che il capo del Cremlino sbagli i calcoli: di certo ha delle ragioni per credere in quello che fa. L’economia russa va male: nel decennio scorso è cresciuta a una media del 5% l’anno ma nel 2012 è scesa al 3,4% e nel 2013 il Prodotto interno lordo è aumentato dell’1,1-1,2%. Poco, troppo poco per un Paese non ancora ricco. Ciò nonostante, e nonostante i rischi del fare affari nel Paese, dal 2010 — dopo la crisi finanziaria globale e il crollo dei prezzi del petrolio del 2008 — in Russia sono entrati ogni anno capitali nell’ordine del 3-4% del Pil.
Ieri, Barack Obama e Angela Merkel hanno evocato nuove sanzioni contro Mosca. La banca centrale ha all’improvviso alzato i tassi d’interesse al 7,5% per combattere l’inflazione. L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito della Russia a BBB-, un solo gradino sopra il livello di titoli spazzatura. In generale, Mosca rischia di essere isolata non solo sul piano politico ma anche su quello economico. Inoltre, la fuga di capitali, strutturale nell’economia del Paese e in gran parte legata allo sfruttamento oligarchico delle materie prime, pare stia accelerando. In queste condizioni, una buona parte dei commentatori ritiene che Putin e i russi pagheranno un prezzo alto per la vicenda ucraina. La classe media, che pure ha appoggiato l’annessione della Crimea, è sempre più interessata a migliorare le proprie condizioni di vita: ormai è circa la metà della popolazione, secondo la definizione dell’Ocse di middle class, e dunque la sua influenza politica potrebbe finire con il consigliare prudenza al presidente.
La questione, però, non è così lineare. Dal punto di vista dell’isolamento commerciale, Mosca era esclusa già prima della crisi in Ucraina dai colloqui che Washington tiene con una serie di Paesi per arrivare a una zona di libero scambio Transatlantica e una Transpacifica. Al Cremlino, inoltre, sono scettici sulla possibilità che queste alleanze commerciali si realizzino in tempi brevi: le trattative per realizzarle sono sempre più difficili. Per quel che riguarda l’esportazione di gas, la strategia espansiva del Cremlino sta focalizzando le menti degli europei sulla realtà di un’eccessiva dipendenza energetica da Mosca. Su questo versante, però, il Cremlino sa di avere un certo lasso di tempo prima che il Vecchio Continente possa accedere a fonti energetiche alternative, magari gas americano. Dal punto di vista del prezzo, inoltre, le forniture di Gazprom potrebbero continuare a essere vantaggiose per gli europei. Intanto che si troveranno nuovi equilibri, inoltre, il colossale monopolio energetico russo può dirottare sempre più le esportazioni verso la Cina (lo sta già facendo): non sarà uno scivolamento gratuito, la China National Petroleum Corporation ne approfitterà per strappar prezzi vantaggiosi. Ma al momento è difficile pensare che Gazprom rimanga senza clienti: anche aperture politiche di Mosca verso il Giappone, finalizzate ad accordi economici, non sono da escludere.
Se si passa al prezzo del petrolio, si deve dire che fino a quando rimane attorno ai cento dollari per barile il bilancio dello Stato russo non dovrebbe subire gravi scosse. Se scendesse attorno agli 80 dollari, si calcola che il bilancio pubblico finirebbe in un deficit tra il 4 e il 5% del Pil. Non piacevole, ma se si considera che il debito pubblico di Mosca è (dato 2012) del 9,4% del Pil (l’Italia è sopra al 130%) si deve concludere che Putin ha uno spazio di manovra agevole di parecchi anni. Più complessa per il Cremlino la questione degli investimenti, il vero punto debole dell’economia russa. I centri di analisi più seri del Paese già da tempo spiegano che il Paese ha la necessità di diversificare l’economia, di svincolarsi dalla dittatura delle materie prime. Di più: dicono che la grande capacità produttiva ereditata dall’Unione Sovietica è ormai saturata o fuori uso. Ragione per la quale servono grandi investimenti nell’industria. Ai quali si devono aggiungere quelli nelle infrastrutture, vecchie e scarse.
Che i capitali non fuggano dalla Russia e che molti altri arrivino dall’estero è dunque necessario. La tensione con l’Occidente, le sanzioni, il rallentamento dell’economia renderanno però meno attraente investire nel Paese. È qui, probabilmente, che Putin gioca la scommessa più rischiosa. Negli ultimi anni, la Russia è migliorata nella classifica della Banca Mondiale dei Paesi in cui è più facile fare business. Il presidente russo cercherà di migliorare ulteriormente il clima pro-affari, di snellire le regole e ridurre la burocrazia. Sapendo due cose: che un po’ di tempo a disposizione per ammansire americani ed europei lo ha. E che in Occidente tante imprese sanno che la Russia resta un grande mercato e una terra di grandi opportunità: per la quale saranno ancora disposte a fare lobbying a favore di Zar Vladimir. Non è detto che sarà l’economia a fermarlo.