Andrea Greco, la Repubblica 26/4/2014, 26 aprile 2014
FORNITURE DI GAS E IMPORT-EXPORT. EUROPA E ITALIA ORA TREMANO
Se la diplomazia internazionale non riesce a disinnescare la miccia sempre più corta tra Russia e Ucraina, e da moniti politici e sanzioni personali si passa a forme di embargo commerciale, anche l’Europa e l’Italia si faranno male. Perché il Vecchio continente è il primo sbocco dell’export russo (123 miliardi), per quasi metà costituito da idrocarburi, che alimentano in toto i paesi dell’ex Patto di Varsavia e in buona parte il fabbisogno di Germania e Italia. Roma, in più, è tra i primi partner commerciali di Mosca e di Kiev, con interscambi miliardari e crescenti.
La Russia nel 2013 era l’ottavo mercato per il made in Italy, primo tra i paesi emergenti con 30,8 miliardi di euro di beni scambiati: 20 miliardi import (e un 37% è gas), 10,8 esportazioni, specie meccanica strumentale (27%) e moda (21%). Gli investimenti italiani in Russia riguardano soprattutto l’energia, ma crescono difesa, elettrodomestici, agroalimentare. L’alfiere degli affari tricolori a Mosca (dal 1968) è Eni, anche se il gruppo ha confermato l’addio del suo ambasciatore a Mosca e la probabile rinuncia alla sede di rappresentanza semidiplomatica, in quel che sembra un riallineamento geopolitico. Da anni operano con soddisfazione e profitti a Mosca anche Intesa Sanpaolo (Zao) e Unicredit. Negli ultimi tempi però anche i russi stanno prendendo confidenza con il mercato italiano: Severstal si è comprata la Lucchini, Lukoil le attività di raffinazione Erg a Priolo, Vimpelcom ha rilevato Wind dall’egiziano Sawiris, e Rosneft ha messo due cip pesanti nell’azionariato di Saras e di Pirelli.
In Ucraina, invece, gli imprenditori nostrani sono arrivati qualche anno dopo, ma in forze: l’Ice mappa circa 500 aziende italiane, un 40% registrato a Kiev per sedi di rappresentanza, ma 136 operatori nel 2011 partecipavano imprese con ricavi sopra i 2,5 milioni, pari a 9mila addetti, che pongono l’Italia nella top ten de-
gli investitori in Ucraina. L’export nostrano a Kiev nel 2013 è salito del 5,7% a 1,9 miliardi, specie in meccanica strumentale (22%) e moda (21%). L’import invece cala nel 2013 a 2,2 miliardi, - 6,2%, e riguarda per lo più acciaio e prodotti agricoli. Il decremento è legato alla doppia crisi - globale e interna, per l’instabilità politica che ha collassato i conti pubblici - che piega l’Ucraina da un biennio e ha contribuito ad azzerare gli investimenti di Intesa Sanpaolo e Unicredit. In cerca di gloria bancaria, e qualche mese prima del crac di Lehman (settembre 2008) le due banche italiane investirono rispettivamente 500 milioni per Pravex Bank, ceduta due mesi fa a 74 milioni, e 1,5 miliardi per Ukrsotsbank, svalutata più volte e che nel 2013 è costata 600 milioni.
L’ad Federico Ghizzoni intende vendere la controllata a Kiev (che ha già chiuso le filiali nella Crimea “russa”), ma oggi è dura. Più dei numeri, però, preoccupano gli approvvigionamenti energetici: dall’Ucraina passa tutto il gas che dalla Russia si irradia via tubo fino al valico di Tarvisio. È un collo di bottiglia che da anni irrita i russi, che difatti nel 2007 misero in cantiere il progetto South Stream, per aggirare l’infida Ucraina attraversando il Mar Nero. Negli ultimi mesi però il futuro di South Stream «si è fatto fosco», per usare le parole di Paolo Scaroni, ad uscente dell’Eni che per anni ha fatto buon viso al gioco - geopolitico - di Mosca sull’ennesimo gasdotto. Perché quel progetto che piace a Putin e costa una ventina di miliardi diventi realtà serve però il nulla osta di Bruxelles allo sbocco finale, su suolo bulgaro; ed è un tema rimosso dalle agende comunitarie dopo le schermaglie tra Russia e Ucraina. Il destino di South Stream è nelle mani di Gazprom, che ha il 50% del consorzio dove Eni detiene il 20% (e la sua controllata Saipem è primo contrattista con 2 miliardi di lavori). Il tubo russo-bulgaro potrebbe cercare un approdo in Turchia, avviare i lavori sottomarini senza l’ok Ue o naufragare, creando problemi a Saipem e ad Eni. Quanto all’Italia, in teoria può fare a meno di tutto il gas russo, se tutti i fornitori alternativi (Algeria, Libia, Norvegia, Olanda) funzionano. Ma anche la Libia del dopo Gheddafi non è un partner affidabile.