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 2014  aprile 25 Venerdì calendario

TANTO SESSO SONO INGLESE

[Intervista ad Alan Bennett] –

Londra. L’appuntamento è alle 11, ma Alan Bennett non apre la porta né risponde al telefono. In quasi tutte le interviste c’è scritto che detesta le interviste, concesse peraltro con il contagocce, quindi la cosa è preoccupante. Sarà scappato? Ha un attacco di orticaria? Se ne sta dietro le veneziane a spiare quando desisto e me ne vado? Chiamo la sua agente che, appresa la notizia, fa oh dear! – una specie di poveri noi! – e si dilegua.
Visto che il timido Bennett ha trasformano la sua insicurezza cronica in un talento sopraffino nel descrivere le piccole paranoie del genere umano, ecco che si scatena l’effetto contagio. Nella quieta stradina di Cadmen dove abita, mette a disagio star fermi un quarto d’ora davanti a un portone di questa arcadia composta da facciate pastello e silenziosi giardinieri. Passa una poliziotta di quartiere con la ricetrasmittente, fa finta di niente, ma di sicuro l’ha chiamata qualcuno per controllare. Dopo venti minuti di guardia al portone, sedersi sui gradini dell’ingresso non sarebbe una cattiva idea, ma c’è il precedente di La signora nel furgone, la barbona accampata diciotto anni davanti alla casa dello scrittore, che nel 1989 le ha dedicato un’irresistibile novella. Non è il caso.
Al trentacinquesimo minuto arriva un’utilitaria che posteggia laboriosamente: è lui. Sì, a ottant’anni, Bennett guida e va anche in bicicletta «meglio che a piedi». Si era scordato l’appuntamento, era andato dall’ottico a ritirare gli occhiali. Mugola scuse e contrizione. Ma a questo punto la timidezza, che poi è solo paura delle brutte figure, può essere accantonata.
Esce in Italia con Adelphi Il vizio dell’arte, il testo di una sua commedia del 2009 (in scena con la compagnia Elfo Puccini a settembre) che, utilizzando la tecnica del teatro nel teatro, ovvero le prove di uno spettacolo, racconta un incontro a Oxford mai avvenuto tra il poeta Wystan Hugh Auden e il musicista Edward Benjamin Britten, compagni di lavoro in gioventù e poi andati per vie diverse. Le due vecchie glorie hanno i loro acciacchi e alcuni problemi di creatività. Una storia crepuscolare? Macché: Auden scambia il suo biografo per un marchettaro prenotato per un pompino a domicilio. E Britten chiede consiglio a Auden perché ha tanto il sospetto che la Morte a Venezia che sta componendo sia una roba da pedofili.
Nella commedia, un personaggio secondario non sa neanche come si pronuncia Auden. E, a parte Funeral Blues, poesia rilanciata da Quattro matrimoni e un funerale, quanto ne sa il suo pubblico?
«In genere, quelli che vengono a teatro ne sanno qualcosa, conoscono la sua faccia, la fama di grand’uomo, la storia che andò in America per via della guerra. E più o meno la stessa quantità di cose sanno di Britten. Per questo ho adottato la figura del biografo che inserisce i dettagli necessari e toglie l’effetto didascalico».
Lei tocca temi altissimi e remoti. Spazia dalla pazzia di re Giorgio alla fama di Kafka, dall’improvvisa bibliofollia di Elisabetta II ai cuori solitari del ceto medio basso. Come si accompagna lo spettatore in territori così disparati?
«Il problema è che io ne so sempre più del pubblico. Non che sia un esperto di qualcosa, ma mi viene un’idea e mi documento. Infatti non so mai cosa rispondere a chi, vent’anni dopo, mi scrive per farmi delle domande su Giorgio III o Kafka. Insomma, questo fatto di dover saperne di più rende le cose noiose: Il vizio dell’arte l’ho riscritto tre volte, non funzionava, poi si è aggiustato alle prove. E il fatto che l’incontro fra i due non sia mai esistito ha facilitato le cose: potevo inventare».
Il suo è un teatro popolare?
«So scrivere roba popolare. Beh, se ci sono le battute e la gente ride è teatro popolare. Però non mi occupo di argomenti popolari: il costume, i comportamenti, quelle cose lì».
In Italia non abbiamo un teatro e neanche un cinema così: o la vetta siderale o l’abisso. Forse dipende dalla mancanza di una vera classe media.
«Eppure in Italia i miei libri vanno benissimo, meglio che in Francia. E non immagina quanto mi lusinghi».
Con una similitudine pasticciera, si potrebbe definire la società britannica che lei racconta come un millefoglie: ogni sottilissimo strato ha i suoi vezzi, le sue miserie, i suoi pregiudizi, le sue fregole. E i suoi snobismi. Lei li trafigge tutti, da Buckingham Palace all’ospizio, dallo squallore degli uffici all’ipocrisia delle parrocchie. Talento naturale?
«Sentirsi socialmente insicuri aiuta. Se ti senti inadeguato sei più consapevole della gente, hai la pelle sottile, ti accorgi degli altri. Con la regina è facile, sei già a metà del lavoro perché tutti la conoscono, sanno come parla, come reagisce. Basta creare la situazione e parte la risata. Molte voci, poi, vengono dalla mia infanzia: mia madre, le mie zie, la moglie del vicario».
Personaggi simili esistono ancora?
«Direi di sì. Incontro di continuo persone che mi dicono: “Dovrebbe conoscere mia cognata: è identica”. Per me è un onore entrare nella vita della gente».
Lei prima scarnificava i tipi sociali, o umani. Da un po’ si è spostato sul sesso. E con la stessa impudenza. Anzi di più. Come spiega la svolta?
«Non so. Ma quando ero più giovane ero più duro con me stesso, poi sono diventato meno autocritico, più easy going. C’è stato un cambiamento, ho conosciuto l’amore, ho avuto voglia di star bene».
Tutto qui?
«C’è stata la morte di mio padre e la demenza di mia madre. Una tragedia e una liberazione: anche Roth dice che quando muore il padre ci si sente liberati. I miei si sarebbero sentiti in imbarazzo leggendo certe cose, erano molto timidi anche loro. E temevano le chiacchiere della gente. Le mie zie no, in pubblico mi avrebbero assolto con la formula “Sa, il mio nipote commediografo...”. Per mia madre, invece, tutto quello che era divertente o eccitante era ordinario. Avere soldi e dimostrare di averne era molto ordinario».
Suo padre era macellaio. Da noi macellaio è l’epiteto, razzista assai, per definire i tipi ordinari di sua madre.
«Mio padre guadagnava poco, ma adesso che la carne è diventata così cara la definizione potrebbe funzionare anche da noi. Comunque lui non avrebbe fatto nessuna esibizione. La riservatezza da noi era una virtù. Meglio timido che gay, era il sottotesto. Ma non è che uno deve essere per forza come
vogliono i genitori».
Lei però i gay li massacra. Sporcaccioni, meschini, cattivelli...
«Il mio compagno non se ne lamenta. Non è un pregiudizio conscio. E nella serie televi-siva Talking Heads c’era l’infermiere gay di un ospizio che era una brava persona. Comunque il movimento non ha mai protestato, anche perché io non sono un’icona gay. Le femministe invece sì: io condivido tutte le loro battaglie, ma loro se la sono presa per certi miei personaggi femminili troppo sottomessi. Purtroppo ho la sensazione che nella metà del Paese le cose stiano ancora così».
In quella serie si sentiva un’eco beckettiana. Era voluta?
«Non so, Beckett mi piaceva molto, ma poi è diventato troppo astruso».
E non è astrusa la sua impiegata sola come un cane? Si compiace perché la mosca che le ronza intorno in ospedale l’ha eletta sua moribonda preferita.
«Sì, in realtà ho fatto anche qualche altra cosa di questo genere».
Nell’introduzione a Il vizio dell’arte scrive che le spiace aver comiciato a lavorare quando è stata abolita la censura. Nostalgia del limite?
«Sì, perche quando ti ci avvicini è eccitante, anche per il pubblico. Adesso io mi diverto a scrivere cose che non si aspettano. Quando ho infilato il primo pompino, in Gli studenti di storia, non ero certo di averne il coraggio. Ho conquistato la libertà dei vecchi, questo dev’essere il mio Stile Tardo».
Tutta questa entomologia sociale e sessuale ha uno scopo?
«No, quando comincio una storia non ho la minima idea di come andrà avanti. Trovo il materiale sul personaggio e comincio a scrivere, magari con una minima traccia di sviluppo che non contempla gli incidenti di percorso. Per esempio in Una donna di lettere non era previsto che questa noiosissima signora che passa il tempo scrivendo reclami finisse in prigione. Invece poi ho realizzato che era l’happy ending giusto per lei».
Lei è un uomo di sinistra, ma nei suoi testi non ci sono palesi prese di posizioni politiche. Una strategia di mercato?
«Al National Theatre, dove lavoro prevalentemente, vengono conservatori e laburisti, ma tutti abbastanza evoluti da non scandalizzarsi per una presa di posizione politica. Nei miei diari, che sono stati pubblicati, ho detto quello che dovevo dire, ma a teatro le istanze di classe e di genere non funzionano».
Dopo Il vizio dell’arte ha scritto altri tre lavori: lo Stile Tardo scalpita.
«Macché, faccio molta più fatica di un tempo. Non leggo le mie vecchie cose, ma se mi capita mi arrabbio pensando a tutta l’energia che è andata perduta».
L’energia creativa? L’ironia?
«No, le mani, i polsi. Io scrivo a mano, e poi a macchina. Ma da un po’ di tempo a questa parte trovo che i tasti siano diventati durissimi».

Paola Zanuttini, il Venerdì di Repubblica 25/4/2014