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 2014  aprile 25 Venerdì calendario

UN ITALIANO CONTRO LE ARCHISTAR


Figurette della Cina maoista, cartoline di pin-up anni Cinquanta, mostriciattoli manga, scatole di quarzi colorati. La confusione dei segni è massima, intorno alla scrivania di Cino Zucchi, e mette un filo d’ansia in chi s’affaccia. Lui, poi, è agitato di suo, si alza si gira scorda ricorda, un po’ per indole un po’ in attesa di notizie dal Vietnam. Dal Vietnam? Sì, dall’isola Con Dao: «È un’isola ex pentitenziario, grande come l’Elba, dove morirono migliaia di vietnamiti. Il nostro studio è stato invitato a studiare un progetto di salvaguardia e sviluppo turistico di una certa scala. Siamo nei giorni della firma del contratto...».
La globalizzazione non scherza. Avanza, bussa, irrompe. Anche qui, in via Revere a Milano, case fine Ottocento lungo le Ferrovie Nord, alle spalle la torre Branca di Gio Ponti, di fronte un palazzetto liberty di Ulisse Stacchini. Il Vietnam in via Revere? Chissà. Bel paradosso, per Zucchi, 58 anni, architetto di famiglia agiata, figlio di industriale tessile, che la critica ha a lungo bollato come «continuatore del professionismo colto milanese del secondo dopoguerra», etichetta, all’evidenza, troppo stretta. «Oggi», dice lui, «con la sfida delle reti di comunicazione alla stessa nozione fisica di città, non si può che avere per orizzonte il mondo intero». E butta lì una citazione di Paul Valéry: «Niente di più originale che nutrirsi degli altri. Ma bisogna digerirli. Il leone è fatto di montone assimilato».
Professionista colto? Un intellettuale, intanto. Cino Zucchi è tra i migliori progettisti italiani della generazione di mezzo (post Piano e Fuksas, per capirci). È il curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale Architettura, dove darà voce, per dir così, alla new wave nazionale, che merita più attenzione di quanta ne abbia avuta negli ultimi anni. Il suo edificio D alla ex Junghans di Venezia (ben noto agli addetti) è stato scelto per la copertina dell’ultima "Storia dell’architettura italiana 1985-2015" di Einaudi. E a differenza di Piano e Fuksas, oltre a costruire, Zucchi ha sempre trasmesso la sua arte all’università: è ordinario di composizione al Politecnico di Milano. Un intellettuale, sì. A suo agio nella teoria matematica e nella letteratura francese, nell’evoluzionismo di Darwin e in Leon Battista Alberti, nella Vienna di Karl Kraus e nell’indie music canadese che ha archiviato a tonnellate sul suo iPod.
"L’Espresso" è qui per capire. Quanto è stato faticoso, per la sua generazione, emergere nel proprio Paese, l’Italia? Lui frena, oscilla tra autobiografia e vicenda generale. Come italiano è anomalo: prima di laurearsi a Milano si prese un Bachelor of Science all’Mit di Cambridge, Massachusetts. «Studiavo matematica avanzata, calcolo vettoriale, andavo a lezione da Marvin Minsky. A Milano mi trovai spiazzato. Un po’ autodidatta, un po’ trovatello». Vent’anni fa pubblicò un tomo impressionante sull’architettura milanese del Cinque-Seicento; oggi progetta quartieri eco-efficienti per Helsinki. Dov’è il retaggio, la tradizione? «Di lombardo», dice, ironico, «credo di avere due cose: la barba biondiccia e una certa reticenza figurativa. Uno spirito, questo sì calvinista, restio a inquinare il mondo con figure arbitrarie. Nella mia testa ho ibridato un sano empirismo anglosassone con una tendenza italiana al compromesso, alla cerimonia, fors’anche alla figura». Una volta, al FestArch, a Perugia, confessò al pubblico: «A volte noi architetti siamo un po’ puttane». In realtà, quello che la critica loda in Zucchi è l’armonia compositiva, l’equilibrio. Per dirla in termini goethiani: più classico che romantico.
Parliamo di luoghi. Perché hanno un carattere. Quando esamina un luogo, racconta Zucchi, ci cammina dentro a lungo per arrivare a una comprensione profonda. Progettare è trasformare. Vale per la mutazione urbana dell’ex Alfa Romeo in Portello Nord, a Milano. Per il destino residenziale del Mercato Navile a Bologna. Per la sede della Salewa, a Bolzano, da lui disegnata come un prisma scultoreo che dialoga con il profilo montano all’orizzonte. «Ogni trasformazione», riflette, «implica una perdita. Le città italiane sono cresciute su se stesse, spesso inglobando le fasi precedenti, come ha fatto Michelangelo al Campidoglio o Pietro da Cortona a Santa Maria della Pace. A poter riavvolgere la pellicola del tempo, ogni città memorabile che conosciamo tornerebbe campo o montagna, forse Arcadia. Gio Ponti diceva che l’Italia è stata fatta metà da Dio e metà dagli architetti».
Si sente parte di una genealogia? No, risponde. Da un lato, la sua educazione particolare. Dall’altro: «Ammiro molti maestri, ma non abbiamo bisogno di sapere chi sia l’autore di una cattedrale. La mia non è una storia per autori, ma per città, per ambienti, per oggetti». Così come in musica, spiega, anche in architettura ha «amori strani», figure non facilmente collocabili, che uniscono la sperimentazione alla capacità di assorbire l’esperienza del passato. Cita Gunnar Asplund in Svezia, Josef Frank in Austria (quello di "Architektur als Symbol", 1931), Bruno Taut in Germania (il sensibile architetto "sociale" della Repubblica di Weimar), Alejandro de la Sota in Spagna. E in ogni caso, dichiara Zucchi con una frase molto bella, aforistica: «Il problema non è quello di essere originali, ma di essere pertinenti».
L’architettura mal si addice al riduzionismo, alle etichette così care al sistema dei media. Riprende Zucchi (che ogni tanto ci mostra un saggio Adelphi di Hofstadter, un oggetto di artigianato del Gujarat...): «A differenza dalle altre arti, l’architettura, diceva sempre Ponti, è piantata per terra "come un cristallo". L’altro suo carattere è l’abitabilità, l’essenza di riparo per l’uomo, lo "shelter". Mai dimenticare quest’aspettativa di protezione». Per lui, "Amate l’architettura", il libro più personale di Ponti, è «una cosa fantastica».
Ma insomma, caro Zucchi, perché dal 2000 in poi, da quando l’Italia è tornata sulla mappa dell’architettura europea, gli italiani stessi hanno così penato a costruire su scala importante, scavalcati dai grandi nomi internazionali sotto il marchio comodo (ma stupido) di "archistar"? La risposta è elusiva: «Volete che vi annoi con la legge Merloni? Nata come antidoto alla corruzione degli anni Novanta, ha stabilizzato procedure concorsuali ma si è rivelata poco adatta ai veri progetti di architettura». Quanto al marchio stupido: «È un fenomeno enfatizzato dai media che si è autoalimentato. Al posto del Principe rinascimentale è subentrata la finanza immobiliare. Il privato finanziario, più reattivo del committente pubblico, ha usato la politica delle grandi firme in chiave di marketing e d’investimento...». Il risultato: Zaha Hadid anche a Salerno, per fare la Stazione marittima, psicodramma dall’esito incerto. Un marziano a Roma, direbbe Flaiano. «Cascami dell’effetto Bilbao. Zaha Hadid oggi è un po’ la Shakira dell’architettura... La Spagna del dopo Franco si giocò una nuova generazione politica anche tramite gli architetti, con l’appoggio dei media. In Italia un po’ ci si è provato. Il problema è che i manager sanno chi è Hadid ma ignorano Alvaro Siza o Rafael Moneo».
Zucchi non è per l’autarchia. Gli architetti italiani, chiarisce, non possono dirsi sottovalutati. Una certa «fluidificazione europea» gli pare utile. Certo andrebbe mitigato l’abuso di slogan: smart city, sostenibilità, sprawl urbano, i non luoghi, il junkspace coniato da Rem Koolhaas. «Tutte parole trendy. Una volta l’ho chiesto a Marc Augé, l’antropologo dei "non luoghi": se l’aspettava che se ne parlasse al bar e in discoteca? Mica tanto, mi ha risposto». Ormai architetti come Gehry, Foster, Koolhaas, persino certi accaniti climber alla Libeskind hanno raggiunto la fama extra-disciplinare. «Anche Lady Gaga», sorride Zucchi, «ha bucato in fretta la sfera del mondo musicale».
È una civiltà, la nostra, alquanto narcisistica, dove l’espressione di sé è diventata un valore da perseguire. Da un lato è un bene, è libertà, argomenta il progettista milanese, dall’altro soffriamo effetti negativi sull’ambiente collettivo: il disordine urbano; l’anarchia dei linguaggi; lo stilismo per stupire. «Il disordine della città contemporanea è diretta conseguenza della grande possibilità di scelta che abbiamo oggi». L’ultimo pensiero sorge da riflessioni sull’eredità, sulla risonanza, e sul movimento moderno. Se da un lato turba il dilagare dell’architettura come marketing, dall’altro cogliamo i limiti del funzionalismo novecentesco: «Il funzionalismo», conclude Cino Zucchi, «ha in parte fallito; gli manca la dimensione narrativa. Ci ha abituato a vedere l’edificio come risposta a una somma di funzioni. Ma l’architettura permane molto tempo dopo che sono decaduti i bisogni che l’avevano generata. Bisogna saper cogliere nell’architettura e nel disegno del territorio gli elementi di lunga durata».
Lunga durata, si torna sempre lì: al Palladio, al tempio dorico, le piramidi, gli ziggurat. A prima ancora, forse, come direbbe Joseph Rykwert, il grande storico: alla casa di Adamo in Paradiso.