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 2014  aprile 25 Venerdì calendario

CARTIER-BRESSON 
L’OCCHIO NASCOSTO


Da dove cominciamo?
«Da dove vuole, tanto non si tratta di un’intervista ma di una conversazione. I giornalisti vogliono sempre prenderti tutto, ma senza darti niente in cambio. Io però sono sempre curioso verso gli altri. E poi non amo che mi chiedano di spiegarmi. Non mi interessa parlare di fotografia. Pittura, pittura, pittura! Ai miei occhi è la sola cosa che esiste. Fin dall’inizio. E vogliono che parli di me!»
È il prezzo della gloria, il rovescio della medaglia della notorietà…
«Uff! Sciocchezze! Siamo tutti noti al nostro portinaio e ai servizi segreti».
D’accordo, ma alcuni lo sono più di altri…
«Sono tutte sciocchezze. Ma è un fardello grave da portare. Bisogna essere invisibili, non rinunciare alla persona che si è davvero e non abbandonare ciò in cui si crede. Sarò sempre un prigioniero evaso».
È ancora un libertario?
«Sì, e lo sono sempre stato. Dal momento in cui ho capito, molto presto, che c’erano altri mondi oltre alle civiltà giudeo-cristiana e musulmana. L’anarchismo è prima di tutto un’etica. È rimasto intatto. Il mondo è cambiato, ma non la concezione libertaria, ovvero la sfida a tutti i poteri. Grazie a questo sono riuscito a risolvere il falso problema della celebrità. Essere conosciuto come fotografo è una forma di potere, e io non ne voglio sapere».
In questo senso bisogna interpretare il suo rifiuto di essere fotografato?
«Certo. Non è per il gusto del segreto, per strategia o protagonismo o chissà che altro! Bisogna passare inosservati. Preservarsi a qualsiasi costo. Il fatto di essere osservati modifica lo sguardo che si punta sugli altri».
È vero che lei non si vede mai in televisione…
«Io? Ma perché dovrei farmi vedere? Non sono un attore! Uomini come Julien Gracq, Samuel Beckett o Louis-René des Forêts non vanno in televisione. E tra i contemporanei sono i miei scrittori preferiti».
E gli scrittori classici?
«Continuo a rileggere gli stessi da sempre. Saint-Simon, che mi appassiona, Nietzsche, Stendhal, Montaigne, Baudelaire, il romanzo inglese, naturalmente Rimbaud. Senza dimenticare l’Aragon surrealista, quello del "Paesano di Parigi". E Joyce e Proust, che non mi stancano mai. Se esulo dal campo della letteratura francese, di solito è per leggere cose sul buddismo tibetano o sullo zen giapponese, che è più alla portata degli occidentali».
Lei ha la fede?
«Non l’ho mai avuta. I miei genitori erano cattolici di sinistra. Ma quando ero piccolo, le storie della Bibbia mi terrorizzavano. Quello che conservo del Cristianesimo è l’amore. È la ragione per cui preferisco il Cantico dei Cantici al resto. Quello che conservo del buddismo è la compassione».
Ma cosa le ha dato il buddismo?
«Mi ha permesso di capire meglio la questione che mi ossessiona. Non tanto lo spazio quanto il tempo, la durata infinitesimale, la pienezza dell’istante. Il tempo è una convenzione. Il buddismo ci dice che non è lineare, che non va in una sola direzione. Grazie al buddismo, che mi ha segnato molto, ho potuto affrontare meglio il problema del tempo».
Anche in fotografia?
«Da questo punto di vista, la fotografia ha qualcosa di funebre: "È finita! Via, passiamo alla prossima!". Nel buddismo ciò che conta è l’istante. Bisogna vivere pienamente l’istante, è l’unico modo di essere dentro a quello che si fa. Da questo nasce la mia passione per la Leica. È una macchina che privilegia l’istante. Mentre le Reflex sono rumorose, disturbano, e questo cambia tutto. Quanto alla Rolleiflex, ci obbliga a guardare gli altri dal nostro ombelico, è imbarazzante».
Quali sono le persone che hanno più influenzato il suo sguardo sul mondo?
«Prima di tutto, mio zio, che era in qualche modo il mio "padre simbolico" dato che il mio, quello vero, è morto in guerra quando ero molto giovane. Mi portava nel suo atelier. Poi c’è stato il pittore André Lhote. Seguivo i suoi corsi all’accademia. Lui mi diceva: "Piccolo surrealista, bei colori!". Il mio gusto della forma, della composizione e della geometria in fotografia si devono a lui. Non sono bravo con i numeri, ma so dove cade la sezione aurea. È una cosa che viene da sola, senza premeditazione. Il mio occhio è sempre in stato di eccitazione, anche se non ho la macchina fotografica. È nello sguardo che trovo il mio piacere. C’è un altro uomo che mi ha molto influenzato. È Tériade, mio amico dagli anni Trenta. Lo consideravo il mio guru. È stato lui a dirmi, vent’anni fa: "In fotografia, hai fatto quello che potevi fare: non potresti andare più lontano. Dovresti tornare alla pittura e disegnare". Aveva ragione, senza dubbio. Ho subito seguito il suo consiglio».
Non ha più niente da dimostrare in quel campo?
«Ma la fotografia non dimostra proprio niente. Quanto meno, io non cerco di dimostrare niente. Il mio amico Sebastião Salgado riesce a fare foto straordinarie, che hanno richiesto un’enorme quantità di lavoro. Non sono state concepite con l’occhio del pittore ma con quello di un sociologo, di un economista, di un militante. Ho un enorme rispetto per quello che fa. Ma in lui c’è un lato messianico che in me è del tutto assente».
Riguardo al problema del tempo, come colloca le sue due attività principali?
«La fotografia è l’azione immediata. Il disegno, la meditazione. Nel primo caso, si tratta dell’impulso spontaneo di una continua attenzione visiva. Coglie l’istante e la sua eternità. Nel secondo caso, l’azione del disegnare elabora quello che la nostra coscienza ha potuto afferrare di quell’istante. A parte questo, quando disegni hai tutto il tempo che vuoi. Quando fotografi, no».
La fotografia e il disegno le procurano due piaceri diversi?
«Il piacere è lo stesso: fermare qualcosa, lottare contro il tempo. Ma con la fotografia, come con il disegno o la pittura, una volta che è terminata, voglio sapere se funziona o no. Se faccio quello che faccio, è per necessità interiore. È qualcosa che deve esprimersi. Poi… Mi ci guadagno il pane, in modo spudorato, il mio esattore lo sa bene».
Ma cosa le è piaciuto della fotografia per tanti anni?
«Il tiro al bersaglio. Catturare lo scatto, se vuole. È la mia passione. In fotografia, sono un vegetariano. Come un cacciatore che non mangerebbe la sua preda. Quello che gli interessa è che l’animale cada. Bum! Per me è lo stesso: conta solo il tiro. Il problema è trovare il momento buono, l’istante…».
Come concilia le esigenze di questo istante decisivo con il suo gusto per la geometria?
«La composizione si basa sul caso. Io non calcolo mai. Intravedo una struttura e aspetto che accada qualcosa. Non ci sono regole. Non bisogna sforzarsi troppo di spiegare il mistero. È meglio essere disponibili, con una Leica a portata di mano. È la macchina ideale».
E l’obiettivo ideale?
«Il 50 mm. Non il 35 mm, è troppo grande, troppo largo! Con quello, i fotografi si prendono sempre per il Tintoretto. Per me il 50 mm resta la cosa più vicina allo sguardo umano. Fotografare è un atteggiamento, un modo di essere, una maniera di vivere, lo chiami come vuole. E di colpo, davanti alla realtà che fugge, hai un’intuizione. Si determina tutta un’organizzazione visiva. Dura una frazione di secondo. Trattieni il respiro… Ci metti il cuore, la testa e soprattutto l’occhio. E tac, è fatta. Il piacere, per me, starà sempre nell’istante, nella cattura dell’immagine e non nella sua contemplazione successiva».
Ci sono fotografie che rimpiange di avere scattato?
«A volte c’è stata una forma di autocensura. Ma… questo riguarda solo me».
Cos’è il pudore per un fotografo?
«Il nudo, per esempio. Non ne ho mai scattati».
Però ne ha disegnati…
«Non è la stessa visione. In fotografia non mi piace. Degas è riuscito a scattare una fotografia di nudo molto bella. Per il resto, si tratta di un soggetto che non appartiene veramente a nessuno. Nel disegno, è diverso. Se ho fatto lo schizzo di qualcosa, me lo ricordo. Nel suo "Viaggio in Italia", Goethe l’ha espresso molto bene: "Quel che non ho disegnato, non l’ho visto"».
Come è possibile avere uno sguardo da pittore eppure vedere il mondo soltanto in bianco e nero?
«È la forma che prevale, non la luce. Tutto qui».
Questo spiega perché si è dedicato al disegno e non alla pittura?
«In realtà, ho una passione per i colori. Ma ho bisogno che mi prendano a calci per avvicinarmi alla tavolozza».
Quali sono i pittori del suo museo immaginario?
«Van Eyck, Cézanne, Uccello. Sono ossessionato dalla composizione. Matisse, senza dubbio, ma Bonnard, Bonnard, Bonnard… E poi la pittura metafisica del giovane [De] Chirico, perché rappresenta il mistero. "Las Meninas" di Vélazquez, è il mistero assoluto. In un caso così, non capisco. Ogni volta resto sconvolto. A volte, bisogna rinunciare a capire e a spiegare. Si deve guardare e basta. Le persone identificano ma non guardano. Passano un paio di minuti davanti a un quadro, con le cuffie nelle orecchie. Appena il tempo di sentire il discorsetto. Si avvicinano solo per guardare l’etichetta. Alcuni sono delusi di non trovarci il prezzo, e passano a quella successiva! Ma cosa ci vengono a fare! Io mica vado al Salone dell’automobile! Non è questo, amare la pittura».
Lei è stato surrealista…
Direi piuttosto un simpatizzante. È vero, ho conosciuto Breton, Crevel, Ernst… Ma non amo la pittura surrealista. È letteratura. Magritte è pieno di giochetti. Va bene per la pubblicità!»
E lei non ama molto neanche quella…
«La pubblicità è il braccio armato di un sistema che senza di essa crollerebbe. Ci costringe a comprare. (...) Io ho lavorato per l’industria a condizioni che oggi non esistono più, ma mai per la pubblicità. A Magnum, hanno l’ordine di non vendere mie foto alla pubblicità. Non esiste!»
Abbiamo sempre conosciuto il suo lato contestatario, ma l’oggetto della sua indignazione è cambiato?
«Oggi il disastro ha un nome preciso: la tecnoscienza, questa corsa in avanti degli apprendisti stregoni. È una cosa che mi fa orrore. Come anche l’universo degli "specialisti". E il cosiddetto "conflitto generazionale". Ma per favore!…Finché siamo sulla terra, facciamo tutti parte della stessa generazione! Siamo solidali in quanto viviamo e abbiamo i piedi sulla stessa terra. Mi fa orrore questa segregazione delle età, quanto gli integralismi religiosi».
Lei non fa differenza tra giovani e vecchi?
«Con una sola eccezione, lo ammetto. Ho dei problemi con i tedeschi della mia età, ma nessuno con i tedeschi giovani. Non provo odio. Solo che preferisco non avere una conversazione con loro. Ai mie coetanei tedeschi ho sempre voglia di chiedere cosa facevano durante la guerra».
Cinquant’anni dopo?
«Ho fatto trenta Kommando di lavoro diversi. Sono evaso per tre volte. Alcuni miei compagni sono stati denunciati, torturati, fucilati. Sono cose che non si dimenticano. La mia nazionalità non era francese, ma prigioniero-evaso».
Ha visto "Schindler’s List"?
«L’ho trovato imbarazzante. Molto sgradevole. Ho pensato ai compagni che avevo perso. Nel loro caso, era realtà. Nel film era tutta una montatura. Ci sono argomenti che non bisognerebbe toccare. Sul genocidio, "Shoah 2" ha detto tutto. Prodigioso».
In fondo non si sbottona molto…
«Si parla sempre troppo. Si usano troppe parole per non dire niente. La matita e la Leica sono silenziose».
Inutile sperare di leggere un giorno le sue Memorie…
«Non sono uno scrittore. Al massimo posso scrivere delle cartoline. E comunque non ho tempo».
Ma cosa fa per tutto il giorno?
«Secondo lei cosa faccio? Guardo…»


Traduzione di Teresa Albanese