Federica Bianchi, L’Espresso 25/4/2014, 25 aprile 2014
SIAMO RICCHI E VI LASCIAMO
A scaldarsi sotto i raggi infuocati di questo nuovo millennio non è solo la calotta polare del nostro globo che si sta sciogliendo ad un tasso quadruplo di dieci anni fa. Ma anche lo spirito di quelle migliaia di cittadini che abitano tra fiordi e ghiacci. Dopo secoli di necessaria dipendenza dalle città del Sud, gli abitanti di luoghi un tempo remoti come la Scozia e la lontana Groenlandia, stanno assaporando l’opzione della libertà politica. Dell’indipendenza.
La Scozia ha fissato il referendum per un no o un sì alla secessione dalla Gran Bretagna per il prossimo 18 settembre. La Groenlandia, l’isola più grande del mondo, e le Faroe, un gruppo di isole a 230 chilometri di distanza dal gruppo scozzese delle Shetland, abitate fin dall’era vichinga aspettano solo di riuscire a pagarsi le bollette da sole prima di allontanarsi da Copenhagen dopo secoli di forzata dipendenza economica. Inseguono il sogno coronato nel 1944 dall’Islanda, prima isola di pescatori sotto il regno di Danimarca e oggi crocevia indipendente di servizi finanziari internazionali.
Seppure con le dovute distinzioni, per tutti questi territori ad accelerare le recenti speranze di entrare nel club delle piccole nazioni, quelle con meno di un milione di abitanti, è sia la nuova mappa dei traffici mondiali tra America, Asia e Europa che i cambiamenti climatici stanno tracciando proprio là dove fino ad oggi la calotta artica aveva reso impraticabile ogni passaggio, sia la possibilità di sfruttare ricchi giacimenti di petrolio e minerali preziosi nascosti per millenni da fitte coltri di ghiaccio. Così da una manciata di anni non sta mutando soltanto il volto del nostro mondo - sempre meno bianco - ma sono in trasformazione anche le abitudini di vita e i rapporti di forza tra le sue popolazioni.
Già nel 2009, dopo 300 anni di sovranità politica ininterrotta, la Danimarca aveva riconosciuto ufficialmente che i 57mila abitanti della Groenlandia sono un popolo etnicamente distinto dai danesi, con il diritto all’autodeterminazione e a un maggiore controllo sui giacimenti potenziali di petrolio. Si è trattato di una sorta di autorizzazione all’indipendenza arrivata mezzo secolo dopo avere ottenuto l’autonomia sulla politiche interne. Ma la realtà è che la piena sovranità non potrà essere raggiunta fino a quando la Groenlandia non riuscirà a fare a meno della massiccia iniezione di fondi provenienti da Copenaghen (500 milioni di euro l’anno, ovvero un quarto del Pil e metà del suo budget annuale) che oggi consentono ai suoi abitanti di godere di uno stile di vita da Paese scandinavo (il salario minimo è di 15 dollari l’ora).
Secondo Aleqa Hammond, l’energetica donna 48enne primo ministro dell’isola, non mancherebbe poi tanto tempo. Ha vinto le elezioni locali solo un anno fa promettendo che il potenziale minerario dell’isola avrebbe certamente condotto la Groenlandia verso l’indipendenza: «Abbiamo montagne di oro, ferro, zinco, piombo e diamanti. Abbiamo enormi montagne che sono lì allo scopo di offrire prosperità alla nostra gente». Certo è che gli abitanti di quest’isola che si estende per oltre due milioni di chilometri quadrati, di cui l’80 per cento è ricoperto da ghiacci, potranno arricchirsi solo se riusciranno a cambiare stile di vita: meno pesca selvaggia, più industria e più commercio. E, perché no, anche più turisti in provenienza da Paesi chiave come la Danimarca, gli Stati Uniti e la Germania. Come conseguenza, la rete stradale - che oggi non supera i 120 chilometri complessivi - dovrà aumentare insieme al traffico e al rumore urbano. A discapito della verginità del territorio. A diminuire invece saranno la quantità degli elicotteri in circolazione nei cieli (i veicoli più usati per gli spostamenti interni) e quello delle slitte trainate dai cani. Cacciatori e pescatori dovranno permettere che il loro territorio vergine venga trivellato alla ricerca di minerali preziosi. E che il fragile ecosistema artico sia posto a dura prova dall’arrivo della modernità.
Ma, nonostante le resistenze di Greenpeace, l’opposizione locale allo sfruttamento del sottosuolo, pur in un ambiente tanto delicato, è flebile. Consci che lo stile di vita di un tempo non basta più alle nuove generazioni che a frotte lasciano l’isola in cerca di fortuna, la maggior parte degli Inuit della Groenlandia è disposto a sacrificare le vecchie tradizioni per aprirsi a nuovi settori industriali e ai sempre più numerosi forestieri che arrivano in cerca di opportunità di guadagno. Non a caso lo scorso autunno l’isola ha aperto agli investitori stranieri lo sfruttamento dei suoi depositi di uranio e delle terre rare, metalli usati nelle nuove tecnologie di cui per il momento la Cina detiene il controllo quasi totale della produzione mondiale. E dopo anni di vani tentativi, nonostante i disastri ambientali di cui si è resa protagonista negli anni passati (quello nel Golfo del Messico fra tutti), la British Petroleum ha ottenuto da Nuuk, la capitale della Groenlandia, il permesso per trivellare al largo delle acque nord-orientali dell’isola alla ricerca di giacimenti petroliferi insieme all’italiana Eni e alla danese Dong Energy.
La speranza per la Groenlandia è di riuscire a imitare un giorno il boom della Norvegia che da povera nazione di pescatori si è trasformata negli ultimi 25 anni in uno dei Paesi più ricchi al mondo grazie allo sfruttamento oculato dei suoi pozzi petroliferi. In un quarto di secolo Oslo è riuscita a costruire il fondo sovrano più grande del mondo per un valore complessivo di 850 miliardi di dollari o 165 mila dollari per cittadino, per dimensioni, addirittura 50 volte dell’equivalente fondo canadese. L’obiettivo dichiarato di tutte le forze politiche, che su questo punto si sono trovate perfettamente d’accordo, è quello di non utilizzare mai i proventi del petrolio per la gestione quotidiana dello Stato ma di garantire invece una vecchiaia serena a tutti i cittadini norvegesi presenti e futuri.
A differenza della Groenlandia le isole Faroe hanno meno fretta di rendersi completamente indipendenti anche se solo il dieci per cento del loro budget dipende dalla Danimarca. I 50mila abitanti già godono di ampia autonomia sia nelle vicende interne che al tavolo del Circolo artico, dove i paesi del Nord (ma anche la Cina ha chiesto una sedia in quel consesso) discutono e disciplinano i cambiamenti che stanno avvenendo intorno al vertice nord della Terra. A rendere questi isolani più moderati nelle loro aspirazioni di diventare una nazione a tutti gli effetti ci ha pensato soprattutto la crisi economica che li ha colpiti negli anni Novanta. Nell’ultimo biennio però sono state le vicende scozzesi a risvegliare i sentimenti indipendentisti.
La Scozia, che dell’isola britannica è parte fisicamente integrante, per non rinunciare alla propria identità storica, il 18 settembre prossimo chiederà ai suoi cittadini di esprimersi, tramite un referendum coraggiosamente autorizzato da Londra, a favore dell’indipendenza. Gli scozzesi già si considerano una nazione, con la loro chiesa presbiteriana, il loro sistema educativo, le loro squadre di rugby e di calcio e una cultura politica liberal lontana mille miglia da quella del governo conservatore di Londra. Ma, in ultima analisi, a convincere Alex Salmond, il primo ministro locale, della fattibilità di una simile battaglia è stata l’abbondanza di petrolio al largo delle isole Shetland nel mar del Nord, che oggi è di proprietà britannica, e un domani, se vincesse il sì all’indipendenza, passerebbe nelle mani degli scozzesi. Secondo Salmond la Scozia dal 1980 ha contribuito più di quanto non abbia ricevuto al budget dell’Unione e si trova adesso in una posizione finanziaria più solida del resto della Gran Bretagna. Secondo gli inglesi, invece, i proventi petroliferi hanno raggiunto il loro massimo nel biennio 2008-2009 e sono destinati lentamente a scemare. Tra le cause non solo la volatilità internazionale dei prezzi e la quantità di petrolio estratta ma anche il costo della produzione che cresce man mano che i giacimenti superficiali si esauriscono e le trivelle scendono più in profondità. Un argomento che si presta ad interpretazioni contrapposte. Se per l’amministrazione britannica nei prossimi quattro anni i ricavi petroliferi non supereranno i 4,5 miliardi di sterline, per il governo scozzese i numeri reali sono equivalenti almeno al doppio. Fatto sta che una Scozia indipendente priva delle rendite petrolifere, con migliaia di cittadini dispersi in comunità remote e un’industria mineraria in declino e massicci investimenti nelle energie rinnovabili nel suo futuro, dovrebbe inventare altri modi per stimolare la crescita economica ed evitare di seppellire i cittadini in un mare di tasse. E poi c’è la questione di quale moneta adottare. Se un tempo Salmond era a favore dell’euro adesso vorrebbe scendere a patti con gli inglesi per formare un’unione monetaria di cui entrambe le parti beneficerebbero. Tanti e troppi le interdipendenze economiche tra le due regioni per rescinderle con una netta coltellata. Soprattutto in campo energetico, tradizionale e non. Ma, indipendentemente dal risultato della consultazione di settembre, è ormai impossibile ignorare i crescenti interessi e problemi comuni che la Scozia, a differenza del resto della Gran Bretagna, sta cominciando a condividere con i paesi della calotta artica – dalle isole Faroe all’Islanda, dalla Groenlandia e dalla Norvegia al Canada e agli Stati Uniti.
Adesso che il Polo Nord è sempre meno una meta per esploratori arditi e sempre più una regione commerciale del nostro globo ha bisogno di equilibri e regole nuove. A tutela di chi vi abita e di chi ne vuole sfruttare le enormi ricchezze potenziali. Ma anche del resto dell’umanità il cui benessere da quei ghiacci residui ancora dipende.