Sabina Minardi, L’Espresso 25/4/2014, 25 aprile 2014
PROFESSIONE CASALINGO
Ho 50 anni. Cerco lavoro come badante. Lavo, stiro, preparo la cena». «Mi offro come collaboratore tuttofare per anziani: li aiuto nel vestirsi, fare il bagno, a prendere le medicine, fare la spesa. Ho esperienza». «Uomo italiano di 44 anni e di buona cultura valuta proposta per lavori domestici». Come sismografi puntati sui cambiamenti, le bacheche di inserzioni on line smascherano le novità. E mentre la crisi lascia sul campo sempre più disoccupati, gli annunci su Internet aggiornano vecchi mestieri: colf, badanti, assistenti sociali, collaboratori domestici, attività tradizionalmente femminili, oggi, per la prima volta, sono svolte anche dagli uomini.
Hanno cominciato gli immigrati -filippini, indiani, peruviani- a entrare nelle nostre case per compiervi mestieri atavicamente "da donna": fare le pulizie, prendersi cura di un anziano o di un bebè. Ma da supporto a ménage familiari zoppicanti, hanno agito da esempio per gli altri maschi, gli italiani. Che ora, riluttanti o con spirito di adattamento, per necessità o con fierezza, inaugurano mestieri "non maschili". Spazi sociali che affrontano vecchi stereotipi. E ridisegnano la maschilità.
AVANGUARDIA BABY SITTER
«Accompagno i bambini a scuola o a fare sport. Facciamo i compiti, andiamo al cinema». Alessandro Scali, torinese, 41 anni, papà di due bambini, fa il baby sitter. Ma l’espressione non gli piace. «Preferisco baby tutor», precisa, come a mitigare l’invasione nel campo di tate e bambinaie (http://alescali.wix.com/babytutor#!). Con una laurea in Lettere moderne, occuparsi di bebè, senza pregiudizi e contro i cliché, è stata per lui una scelta meditata: «Mi sono detto: come posso trasformare in lavoro la familiarità che ho con i bambini?», racconta: «Sono cresciuto tra i pianti e le pappette dei miei fratelli più piccoli. Ho passato anni a fare l’animatore all’oratorio. In tanti, parenti e conoscenti, mi dicevano che mi avrebbero affidato volentieri i loro figli. Così ho deciso di provarci. Oggi io penso ai bambini, mia moglie lavora fuori casa. So bene che i compiti di cura sono sempre stati prerogativa femminile. E sono consapevole di rappresentare un’avanguardia. Ma proprio per questo amo il mio lavoro: trovo assurdo che l’educazione nell’infanzia sia affidata quasi esclusivamente alle donne. Perché penso che il punto di vista maschile sia utile. Spesso vengo contattato da donne separate o con un marito poco presente, convinte che un "male tutor" possa bilanciare quell’assenza. Io offro il mio supporto, ma senza sostituirmi a un padre. Semmai con l’approccio del fratello più grande».
«È un rischio: essere percepito come la figura maschile che in certe famiglie manca», conferma Marco Zaffignani, 31 anni, una laurea in Scienza dell’educazione, educatore presso l’asilo nido del Villaggio della madre e del fanciullo di Milano: «Sta a noi essere bravi a trasmettere, con delicatezza, un messaggio corretto. Io mi occupo di piccolissimi, dai 10 ai 36 mesi. Nella mia struttura mi trovo bene, sono considerato un valore aggiunto proprio perché maschio. Ma sento molta curiosità intorno. I miei amici mi domandano se so cambiare un pannolino, se so preparare le pappe. Sì, sono cose che faccio ogni giorno. Esattamente come tanti uomini che sempre più spesso non delegano alla madre i gesti necessari alla crescita di un bambino». "Manny", coach, tutor, il mestiere del babysitter si fa strada. E la tv lo sottolinea: nell’ottava serie del programma "Sos Tata" ad affiancare le tate c’è anche un giovane uomo. Ma non sempre prendersi cura dei bambini o della casa è una decisione così serena.
UN ESERCITO DI RASSEGNATI
«Faccio la cameriera! Faccio i lavori di casa! Ma non l’ho scelto io. Volevo un’occupazione diversa, ho provato a cercare, ma non si trova niente. Ora faccio il lavoro che faceva mia madre. E mi vergogno più di lei, perché sono uomo», si lamenta un collaboratore domestico di 29 anni, con diploma professionale. «Ho perso il posto tre anni fa, la crisi mi ha obbligato a chiudere la mia impresa. Ero operaio, un lavoro vero che mi piaceva. A fare il badante sono arrivato per disperazione, perché avevo bisogno di guadagnare dei soldi, così ho accettato», racconta un uomo di 45 anni, diplomato. «Sì, la maggior parte degli uomini vive questa situazione con imbarazzo e chiede riservatezza», spiega Letizia Carrera, sociologa dell’Università Aldo Moro di Bari, che ha indagato l’atteggiamento maschile verso le mansioni tradizionalmente femminili in una ricerca, riportata nel saggio "Trasformazioni del lavoro nella contemporaneità", a cura di Margherita Sabrina Perra ed Elisabetta Ruspini (Franco Angeli). Perché non ci sono ancora statistiche ufficiali. L’ultima indagine che sfiora l’argomento è sui lavori familiari degli uomini in Italia (Istat, 2010): spia di una percentuale in crescita di maschi che durante il giorno preparano i pasti (il 43, 2 per cento rispetto al 28,4 di dieci anni prima), lavano i piatti (il 26,1 per cento), puliscono la casa (il 30 per cento) e stirano (l’1,1 per cento). Ma il fenomeno degli uomini, impiegati in lavori non maschili è in aumento. E i sociologi sono già all’opera per interpretarlo: da quali percorsi arrivano, come percepiscono queste professioni, come cambia il rapporto con la famiglia. Ci sono gli "indifferenti", che considerano quell’impiego temporaneo, in attesa di uno vero; gli "adattati", che sembrano aver fatto di necessità virtù; gli "innovatori", che dichiarano di aver scelto consapevolmente lavori non maschili, pronti a lottare contro i luoghi comuni. Ma ci sono, soprattutto, i maschi che il più delle volte lavorano in nero, in case private, che non di rado tentano di nascondere le mansioni che svolgono: i "rassegnati".
«La ricerca universitaria è stata svolta tra il 2012 e il 2013 su un campione di 40 uomini in Puglia. E il Sud entra in gioco prepotentemente: da una parte con le sue resistenze culturali - occuparsi dei figli o della casa è giudicato ancora inopportuno e innaturale- dall’altra con la vistosa perdita di posti di lavoro. Non c’è tempo, per questi uomini, di elaborare il lutto o attuare tentativi di mascheramento: finiscono per svolgere lavori domestici. Ma è un faticoso ripiego», spiega Carrera. Gli intervistati confermano. «All’inizio non mi alzavo neanche dal letto finché i miei figli non erano usciti. Dicevo che stavo male. Poi ho pensato che non potevo continuare così. Faccio io quello che prima faceva mia moglie», dice un casalingo di 45 anni, diplomato. E, come lui, molti altri: ad ingrossare le fila dei lavori di casa c’è non solo chi un posto l’ha perso. Ma anche chi non può più permettersi un aiuto esterno. I collaboratori domestici hanno superato in Italia un milione 650 mila? Da qui al 2030 ne serviranno altri 500 mila, stima il Censis. Che, in uno studio del 2013 per il Ministero del Lavoro, fa una previsione: considerati i costi, e l’incidenza sul reddito familiare, in molti abbandoneranno l’occupazione per dedicarsi alla cura di un parente. Anzi, sta già accadendo: si sa che negli ultimi due anni sono raddoppiate le presenze italiane nei corsi di formazione per colf e assistenti familiari. E se nove volte su dieci tocca a una donna rinunciare al lavoro per prendersi cura di un figlio o di un anziano, la novità è in chi, per la prima volta, compie il sacrificio: un uomo.
ALL’ANAGRAFE CASALINGO
«Ho 60 anni, sono un casalingo. D’accordo con mia moglie ho fatto la scelta di restare a casa alcuni anni fa», racconta Fiorenzo Bresciani, che a Pietrasanta, Lucca, ha fondato l’associazione "Uomini casalinghi" (uominicasalinghi.it). «Eccetto mia moglie, chiunque mi guardava con sospetto: come se facessi il mantenuto. All’epoca, avevo dovuto chiudere un’attività commerciale. Il momento più imbarazzante? Dovevo rifare la carta di identità e dichiarare la mia professione. Allo sportello, ho risposto "casalingo". Ricordo la faccia dell’impiegata che ha smesso di scrivere, ha alzato lo sguardo, e mi ha detto: "Lei è disoccupato?". "No", ho risposto: "Sapesse quanto lavoro". Ho dovuto dibattere per delle ore, con lei e con i responsabili dell’ufficio: "casalingo", su un documento, era una formula non prevista. Alla fine ho vinto io».
Bresciani parla come chi ha infranto un tabù. E in fondo, lo ha fatto davvero: l’associazione "Uomini casalinghi" conta oggi 6000 iscritti, «con molti separati, soprattutto dal Sud, che si aggiungono di continuo, e che trovano un supporto per affrontare la solitudine. Cerchiamo di scardinare lo stereotipo di uomini inadeguati al lavoro domestico. È solo una questione di abitudine e di educazione. A me è venuto più naturale perché ho avuto l’esempio di mio padre, costretto da una malattia a rimanere in casa. Con quattro figli da crescere, mia madre ha dovuto rimboccarsi le maniche e lavorare fuori di casa. Mio padre si è fatto carico di tutte le faccende, senza mai tirarsi indietro. Per la sua generazione è stata una sconfitta. Io ho voluto dimostrare che non c’è nulla di cui vergognarsi». E se anche fanno un po’ sorridere i suoi corsi di Stirologia ed Epistemologia del bucato, di certo Bresciani è diventato un maitre à penser dei nuovi mestieri: interviene ai dibattiti, e un format televisivo, tagliato su di lui, è in preparazione. Per mostrare che è solo la miopia sociale ad alterare la percezione di certe professioni. E che affrontare modelli egemoni è un rischio che oggi si può correre.
VOCAZIONE MAESTRO
«Fare il maestro è una scelta alla quale non rinuncerei mai», interviene Diego Mortalò, che insegna alla scuola primaria del Collegio San Carlo di Milano, dopo sei anni all’asilo nido Il Germoglio delle Orsoline. «Ho 38 anni, lavoro con i bambini da quando ne avevo 19» racconta: «Non sono sposato; non ho figli e, a essere sincero, non sento neppure l’esigenza di diventare padre: sono impegnato ogni anno a tirar fuori dal mio "progetto"- io la classe la chiamo così- tutte le sue possibilità. Mi rendo conto di rappresentare una minoranza di uomini, e dunque di destare qualche curiosità. Ma la mia scelta, che sembra così innovativa, affonda nella storia: tradizionalmente, i maestri sono stati maschi». Poi, dagli anni Settanta, la femminilizzazione della scuola. Oggi, l’inversione di rotta. «Famiglie allargate, coppie non sposate ma con figli, e una figura maschile più dinamica e aperta al nuovo stanno cambiando la sensibilità verso certi mestieri. Spingendo verso il recupero dei compiti formativi», nota il maestro Diego: «Del resto, che ci sia una maggiore presenza maschile nelle scuole è per i bambini una ricchezza: un uomo rappresenta un modello diverso. Io sono alto, ho la barba, una fisicità forte, non sono austero ma penso di aver carisma. Per comunicare con i più piccoli ho imparato a gestire la voce e la postura. A giocare col corpo, a dosare i silenzi, ad affrontare le situazioni difficili: entro facilmente in sintonia con i bambini».
E con i genitori? Non sente mai perplessità da parte loro? «Ho insegnato alla scuola Padre Beccaro di Milano, un istituto molto accogliente verso gli stranieri. In classe avevo 22 bambini di sei nazionalità diverse, che mi hanno permesso di osservare il mio ruolo anche sotto la lente di altre culture. Ho sperimentato solo grande rispetto. Sono sicuro che qualche perplessità nei genitori italiani c’è. Ma vanno rassicurati. Va spiegato loro che avere una varietà di modelli di riferimento è importante: i maschietti, ad esempio, istintivamente si confidano prima con me che con una maestra. Ma uno dei momenti più belli, in cui ho capito che ciò che conta è la fiducia che riesci a creare coi tuoi allievi, è stato quando, in quinta elementare, alcune bambine mi hanno confidato della loro crescita. E io gli ho spiegato come vivere con tranquillità quei cambiamenti delicati del loro corpo. Qual è l’atteggiamento delle mie colleghe? In genere sono disponibili. Talvolta, ce n’è qualcuna che mi tiene a distanza. Ma lo capisco: non è semplice fare a pezzi una certa idea di uomo».