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 2014  aprile 25 Venerdì calendario

RICOMINCIO DA GAD

[Colloquio Con Gad Lerner] –

L’Italia? È in overdose da talk show». E così Gad Lerner, 60 anni a dicembre, dopo vent’anni di televisione cambia rotta. "Fischia il vento", in onda da nove settimane su Laeffe e Repubblica.it, chiuderà la prima stagione mercoledì prossimo con un segno più davanti. Ma non è l’ascolto, o il ritorno su giornali e siti, quel che interessa a Lerner. «Sono tornato in mezzo alle persone e mi sono reso conto che l’Italia che c’è qua fuori è più avanti di quella che si vede sugli schermi», dice. Fra povertà, fattore Renzi e una Destra silenziosa e divisa dalla fine di Berlusconi, ma pronta a riorganizzarsi per tornare al potere.
Gad Lerner, dopo anni di talk show, di ospiti e dibattiti, di studi televisivi tradizionali, torna a fare le inchieste sul campo. Perché?
«Si può dire che sono tornato a "l’Espresso", a via Po. Anzi a via Cino del Duca a Milano. Denota forse una certa vecchiaia, ma tornare a fare il giornalista in mezzo alla gente reale è stata una necessità».
Nostalgia?
«Intanto avevo un patto con me stesso: mai diventare un animale televisivo attaccato alla luce rossa della telecamera. Sono grato alla tv, ma devo fare altro. Anche ricominciare a studiare. A partire dall’ebraismo. Mi ero posto il limite dei sessant’anni, dopo circa venti di "vecchia" televisione, pur alternati ad altro. Ed eccomi qua. Ringrazio gli studi televisivi per la libertà che mi hanno dato, anche economica. È stata una vita avvincente, soprattutto all’inizio degli anni Novanta. Quello de "l’Infedele" è stato un decennio felice: eravamo il terzo incomodo fra Rai e Mediaset, abbottonati nell’era berlusconiana. Avevamo libertà, ospiti più sconosciuti, una tv più colta, senza l’incubo dello share, che comunque c’è stato. Ma adesso è cambiato tutto».
Il talk perde ascolti. Sembra logorato.
«All’inizio i talk erano un modo nuovo di raccontare gli italiani. Si portavano in tv i volti che non c’erano mai stati e si mescolavano i linguaggi di politica, impresa, sindacato. Erano genuini e funzionavano».
Poi?
«Con il passare degli anni è diventato un genere. Quelle stesse persone hanno imparato la malizia della tv e cominciato a recitare una parte. Così ora sembrano finti. Ai colleghi dei talk, che stimo ma non invidio, dico questo: "Non è una catastrofe uscire da quegli studi"».
Ed è arrivata "Fischia il Vento". Che va in onda su digitale terrestre, satellite e Web. Ma che è girata sul campo. Senza riflettori.
«Già, è stata una bellissima coincidenza. Due luoghi a me cari, due case della sinistra, la Feltrinelli e il gruppo l’Espresso, si sono ritrovate a immaginarsi nel futuro multimediale, quello in cui i giornali non saranno più solo di carta e le librerie non venderanno più solo libri di carta. Con Feltrinelli se ne ragionava da alcuni anni, sulla necessità di cambiare pelle rimandendo se stessi, produttori di cultura. All’inizio si pensò che fosse La7, ai tempi di Telecom, il partner ideale. Era stata fatta anche una società, di cui Telecom deteneva il 30 per cento. Poi il nuovo editore Cairo è uscito ed è subentrato l’Espresso, che ha ceduto il canale 50 del digitale terrestre. Così "Fischia il vento" si può vedere sul 132 di Sky, sul digitale terrestre e sul sito di Repubblica.it. Un’esperienza che mette insieme il giornalismo delle mie origini e la novità dei mezzi».
Quanto è diverso dalla tv generalista?
«Del tutto. È fuori dallo studio, appunto. E poi girare in motorino, in treno, a piedi anziché con l’autista è più giusto. Dopo vent’anni di auto blu ti fa molto bene. Aiuta a ricostituirsi un senso del limite, ti riavvicina a ciò che racconti. Torna la fatica, 45 minuti alla settimana, girando da Catania a Berlino, a Caserta sono fatica. Puoi reggere per qualche tempo, non per 40 settimane l’anno come i talk».
Questo per chi lo fa. Per lo spettatore?
«Diciamo che la realtà che mostriamo su Laeffe e Repubblica.it in uno studio tradizionale sarebbe irraccontabile. Nemmeno se le dai la forma, ormai scontata, del collegamento, che funziona come un mugugno di fondo all’ospite. Si sente la distanza fra le piazze e gli ospiti, che ogni tanto dicono qualche frase di circostanza. Sarebbe da fare un esperimento: verificare quanti ospiti dei talk guadagnano meno di 100 mila euro l’anno. Credo pochissimi».
È il giornalismo 2.0: inchieste tradizionali e reportage, ma su nuove piattaorme?
«Ricominciare dal viaggio per l’Italia è embrionale, e stiamo definendo un modo nuovo di fare giornalismo. Con la mia coautrice Laura Gnocchi, che ha diretto "il Venerdì" di Repubblica, e con cui c’è una sensibilità comune. E con Vittoria Iacovella, che ogni settimana ci racconta una storia, ingrandita da lei. L’ultima è un’inchiesta sul pane sprecato. In Italia c’è il riciclaggio del pane quotidiano...».
Quale Italia ha trovato girando il programma?
«Diciamo che il rancore, che è il tono di fondo dei talk, è qualcosa di piuttosto recitato, e in realtà anacronistico rispetto al sentimento dominante. Il vero dato che incontri è la decurtazione dei redditi. Non è un caso che uno come Renzi, che ha orecchio sottile, abbia come tema togliere a chi non ha pagato. Il dato è che tutti prendono meno soldi e questo cambia la psicologia del Paese».
In che modo?
«Cambiano le abitudini alimentari, ad esempio, al punto che la dieta proteica è diventata un lusso per il 16 per cento delle famiglie. Aumentano i furti nei supermercati. Avviene che le mamme, una volta arrivate alla cassa con il carrello, interroghino la cassiera: a quanto siamo? Perché hanno un limite di budget. Nel tempo subentra la depressione».
Depressione?
«Sì, gli economisti studiano la deflazione, il calo dei prezzi di beni che non sono considerati di primo consumo, la chiamano il "mal sottile" dell’economia, ma sul piano psicologico quel che si incontra è la depressione. Penso agli operai dell’Electrolux che ho incontrato. Quando l’azienda ti dice "o ti pago di meno o vado all’estero" fai presto a dire solidarietà, stiamo insieme, ecc. Anche con lo stabilimento a pochi chilometri dal tuo. Diventa "mors tua, vita mea" e quella è l’Italia di oggi. Ma ci sono molti esempi».
Un altro che ha incontrato nel suo viaggio?
«I centri commerciali che si svuotano. Sono luoghi pieni di negozi, bar, ristoranti, erano i ritrovi dei ragazzi di periferia. Ma è frustrante andarci senza soldi. Così nascono le nuove comunità, molto lontane dalla politica. Nuove forme mutualistiche nei quartieri più disagiati, nuovi modi di stare insieme che si stanno moltiplicando in Italia. Ma nulla a che vedere con i toni furibondi di Grillo, che impersona "l’incazzatura", ma non riesce a fare il passo successivo: la comunità».
Renzi ci riesce?
«L’Italia ha ricominciato dalla ricerca del capo, cui Renzi ha risposto con capacità. Ma ormai c’è un certo disincanto, quasi superstizioso. La sensazione che ti fai è che il primato del Pd sia, come già è accaduto, un’illusione ottica. Colma un vuoto mediatico. Non c’è un’Italia che va a sinistra. Per certe cose ricorda Craxi: rimettere la politica a capotavola, trattare da pari i poteri forti. Nobile nella sua spregiudicatezza del vivere alla giornata. Ma c’è una destra reale che, appena trova un’alternativa, riprenderà spazio».
Che destra c’è?
«Mi dà l’idea che ci sia un nesso fra la destra italiana e il fatto che abbiamo un’economia illegale così larga. C’è la frantumazione in clan. E ho l’impressione che il berlusconismo senza Berlusconi possa essere perfino peggio che con lui. Senza il capo, quei clan dovranno difendersi da soli, avremo una politica molto più pericolosa».