Lirio Abbate, L’Espresso 25/4/2014, 25 aprile 2014
SONO IO L’ANGELO
Un pistolero venuto dal nulla. Per quasi trent’anni è stato l’angelo vendicatore di Cosa nostra, un killer invisibile a cui affidare le missioni che devono restare nascoste anche all’interno dell’organizzazione criminale. Sergio Flamia era l’esecutore della famiglia di Bagheria, una delle più importanti nel gotha della mafia palermitana: quando ha deciso di collaborare con la giustizia, ha spiazzato gli investigatori rivelando di avere ammazzato una quarantina di volte. Fino ad allora, era rimasto un fantasma con il revolver. Dal 1993 è stato arrestato tre volte, con imputazioni per droga o per ruoli minori nei traffici delle cosche, ma ha sempre riottenuto la libertà. Nessuno ha mai sospettato il suo record personale, che lo porta ai vertici delle classifiche dei sicari siciliani. Solo da pochi mesi ha deciso di parlare, svelando la sua incredibile carriera di morte: si è autoaccusato di una lunga serie di omicidi, permettendo di riaprire le indagini su delitti rimasti irrisolti per decenni. Un uomo di piombo, freddo e controllato, abituato a muoversi nell’ombra: ha dichiarato anche di essere stato a lungo confidente dei servizi segreti, fornendo notizie a un agente dell’intelligence.
BAGHERIA CONNECTION
Flamia, ha 51 anni, è nato e cresciuto a Bagheria. Davanti ai pm palermitani Leonardo Agueci e Francesca Mazzocco ha descritto la sua ascesa criminale nella città delle ville, un giardino verde di residenze nobiliari poi travolto dal cemento dei costruttori mafiosi. Una storia che comincia con i primi delitti nel 1984, gli anni della mattanza che segnò il trionfo corleonese, fino a diventare il braccio destro del padrino e il custode della cassa della famiglia. Per un periodo è stato anche il custode della latitanza di Bernardo Provenzano, l’ultimo grande capo di Cosa nostra. Un’epopea su cui adesso gli investigatori stanno cercando riscontri, perché le parole del pistolero possono riscrivere molti episodi e aprono uno squarcio sul presente della mafia, che cerca di rifondarsi tornando ai valori delle origini.
TORNANO I PUNCIUTI
«Ho deciso di collaborare perché voglio cambiare vita e garantire a me e ai miei familiari un futuro tranquillo e libero dal crimine. La mia decisione è maturata perché sono stanco di andare dietro a queste storie di mafia, a queste malefatte, ho deciso di cambiare vita e di vivere più tranquillo e sereno con la mia famiglia. Per famiglia intendo mia moglie e i miei figli», la collaborazione di Flamia con i pubblici ministeri si apre il 30 ottobre scorso con queste parole. È un discorso che parte da lontano, da quel codice d’onore che sostiene di avere appreso durante l’infanzia, ma che si è dissolto da tempo. Ora tutto è «decaduto» e il «valore criminale è caduto troppo in basso»: i mafiosi hanno perso autorevolezza, non sono più uomini di rispetto. Una crisi di credibilità per l’intera organizzazione, a cui due anni fa si è cominciato a rispondere tornando alle vecchie maniere, quelle nate prima che il potere assoluto dei corleonesi stravolgesse i capisaldi dell’onorata società. A farsene carico sono stati i veterani, boss tornati in paese dopo anni e anni di prigione, che hanno cominciato a reclutare persone di spessore criminale. E le hanno affiliate seguendo il più antico dei riti: la "punciuta" del dito della mano e le gocce di sangue fatte cadere su un’immaginetta sacra, bruciata mentre l’uomo d’onore la stringe recitando il giuramento. Una messinscena per cercare di ridare un senso ai canoni di Cosa nostra. Sergio Flamia dichiara di avere avuto la sua cerimonia di iniziazione soltanto nel gennaio 2012, nel retro di un panificio-pizzeria di Villabate, alla presenza dei capi della zona: fino ad allora, si era sempre mosso nell’ombra. Quando è arrivata l’affiliazione, il sicario aveva smesso di credere nella Cosa nostra ma non poteva tirarsi indietro: sarebbe stata una condanna a morte sicura.
VIVI E FAI MORIRE
La stessa freddezza con cui premeva il grilletto sembra specchiarsi anche nelle sue rivelazioni. Racconta le esecuzioni nei particolari, con quei dettagli fondamentali per concepire il piano di un delitto e che restano impressi solo nella mente del killer. Non c’è commozione, né rimorso verso le vittime: uccidere e morire sono parte della vita del mafioso. «Quando si è inseriti in un contesto mafioso o vicino ad una famiglia mafiosa bisogna avere fatto omicidi, partecipato a fatti gravi». E Flamia aveva la pistola facile. I carabinieri se ne sono resi conto grazie alle microspie piazzate nel negozio di frutta e verdura che gestiva prima dell’arresto. Il killer litiga con il cognato, in presenza di testimoni, poi alza la voce: «Ti taglio la gola, devi andare via da questo posto!». Ma il familiare non si muove, e quindi Flamia afferra la pistola che ha sotto il banco degli ortaggi e grida: «Ti sparo come un cornuto se non te ne vai». Pochi secondi dopo la microspia dei carabinieri registra l’esplosione di una pallottola, destinata però solo a fare paura. Subito il sicario intima: «Ora vedi di levarti davanti ai miei occhi. E non tornare più». Poi si rivolge a un uomo che ha assistitito alla scena: «Prendi il proiettile e buttalo nel water».
LA FINE DI SCARPUZZEDDA
Quasi a segnare un passaggio di testimone tra pistoleri, Flamia potrebbe fare luce sulla fine del killer più spietato dei corleonesi, Giuseppe Greco "Scarpuzzedda", l’autore di centinaia di omicidi fra cui quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa e Pio La Torre. Scarpuzzedda è scomparso nel 1984, inghiottito dalla lupara bianca: secondo il nuovo collaboratore, l’eliminazione è stata gestita dal boss Giuseppe Scaduto. «È stato strangolato dentro la loro proprietà a Bagheria». All’epoca la città si stava trasformando dal giardino della nobiltà palermitana alla spiaggia dei nuovi ricchi spuntati dal nulla, quelli che avevano fatto i soldi grazie a Cosa nostra. Su una scogliera a picco sul mare, c’è l’entrata della villa di "Scarpuzzedda": trentasei stanze disposte in appartamenti distinti, digradanti verso il mare. I latitanti di alto rango si portavano le famiglie, occupavano piani diversi, a ciascuno il suo spazio: dalle terrazze piastrellate di bianco guardavano il promontorio di Mongerbino e bevevano champagne con il padrone di casa. Il killer dopo aver ucciso Pio La Torre e poi Dalla Chiesa disse ad un mafioso, che poi divenne pentito: «Stu omicidio Dalla Chiesa non ci voleva... Ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca». E indicò chiaramente che dietro l’esecuzione c’era Provenzano: «Comunque qua io ho avuto uno scherzetto in questo omicidio, e stu scherzetto me lo fece u ragioniere (Provenzano ndr)». Greco aveva ricevuto garanzie per l’operazione, promesse che poi non erano state mantenute. Fino all’ultimo appuntamento a Bagheria, non lontano dalla sua sfarzosa dimora.
MANCATO BLITZ
Ci sono alcuni capitoli della saga di Flamia che vanno valutati con grande attenzione. Ad esempio quando parla degli incontri che Provenzano faceva nelle campagne di Misilmeri nel 1995. Ad uno di questi appuntamenti con i mafiosi è legata l’inchiesta della procura di Palermo sul mancato blitz da parte dei Ros dei carabinieri che avrebbe potuto portare, secondo le rivelazioni del confidente Luigi Ilardo, all’arresto di Provenzano. Per questa vicenda sono finiti sotto processo il generale Mario Mori, all’epoca vice comandante del Ros, e un suo ufficiale, Mario Obinu, entrambi poi assolti dai giudici del tribunale. Flamia ha raccontato ai pm quello che ha vissuto personalmente in quel periodo e ciò che gli è stato riferito da altri mafiosi. La sua versione potrebbe non coincidere con alcuni aspetti riferiti da Ilardo, ucciso a Catania alla vigilia della sua collaborazione ufficiale con la giustizia, e riportati in un rapporto giudiziario dell’allora colonnello Michele Riccio.
ETÀ DELL’ORO
Erano anni formidabili quelli di Provenzano a Bagheria, con fiumi di "piccioli" che sembravano infiniti: «L’ho visto tante volte con borse piene di soldi. Glieli portavano ogni settimana i rappresentanti delle varie famiglie». «Tanti quattrini li ho pure visti in mano a Giuseppe "Piddu" Madonia, anche lui latitante a Bagheria, insieme a Provenzano, ma per noi non c’era nulla». Oggi anche Cosa nostra è in piena recessione e fatica a garantire lo stipendio mensile alle famiglie dei detenuti: ci sono boss che hanno smesso di pagare gli avvocati agli affiliati. «Si sono dimenticati anche di aiutare in carcere uno che aveva favorito la latitanza di Provenzano», spiega Flamia. «L’unica volta che io ho avuto soldi sono stati 2500 euro, e poi non ho più visto nulla. Eppure i soldi i capimafia continuano ad incassarli da estorsioni e dagli imprenditori, ma dicono che non c’è più denaro nelle casse della famiglia».
ASSE CANADESE
La cosca di Bagheria negli affari aveva un asse diretto con il Canada, attraverso contatti col clan Rizzuto, poi interrotti per la guerra interna scoppiata a Toronto. Flamia ha descritto i traffici di stupefacenti e psicofarmaci, fornendo nuovo impulso alle inchieste dei carabinieri. E proprio in tale contesto si inserisce il duplice omicidio dello spagnolo Juan Ramon Fernadez e del portoghese Fernando Pimentel. I cadaveri carbonizzati dei due sono stati rinvenuti nel maggio dello scorso anno nelle campagne di Casteldaccia a pochi chilometri da Bagheria, su indicazione di un mafioso, Giuseppe Carbone che ha iniziato a collaborare, autoaccusandosi anche lui di questo duplice delitto.
COME VOTANO GLI AMICI
Oltre alle armi, Flamia avrebbe maneggiato anche la politica locale, dando sostegno «in più occasioni» ai candidati per le elezioni comunali e regionali. Fa riferimento a tale Vitrano, che avrebbe pagato per raccogliere voti a Bagheria. Il meccanismo era quello classico: l’interessamento avveniva «tramite amicizie». «Ci chiedevano di dare una mano ad un politico e la famiglia mafiosa scendeva in campagna elettorale. Dietro compenso economico, parlavo con gli amici, spargevo la voce per far votare il "nostro" candidato e in alcuni casi facevamo consegnare anche sacchi di spesa. Il controllo del voto era semplice, perché a Bagheria il nostro candidato non era conosciuto da nessuno e non aveva nessun voto e quindi tutti i voti che arrivavano a Bagheria erano grazie a noi». E in passato sono stati eletti politici che erano appoggiati dalle famiglie mafiose? «Sì, quasi sempre».
CONFISCA, NON SFRATTO
Il capomafia di Bagheria, Gino Di Salvo, abitava in una residenza costruita nell’area attorno alla settecentesca Villa Valguarnera. Nel 2009 i giudici ne hanno ordinato la confisca definitiva ma fino a pochi mesi fa il boss ha continuato a vivere lì con la sua famiglia, finché i carabinieri non l’hanno arrestato di nuovo. Le ville di questa zona sono state tirate su ignorando il divieto assoluto di edificabilità. Di Salvo non solo ha fatto costruire la sua abitazione all’interno del parco monumentale borbonico, ma qui nella prima metà degli anni Novanta ha portato Provenzano e un altro grande ricercato, Giuseppe "Piddu" Madonia. Dalle vacanze dei grandi baroni palermitani alle latitanze dei padrini della cupola: lo rivelano i collaboratori di giustizia e adesso lo conferma il neo pentito Sergio Flamia. Il boss Di Salvo è finito in carcere diverse volte. I giudici del tribunale di Palermo, riconoscendo il suo ruolo dentro Cosa nostra, hanno ordinato la confisca dei beni, fra cui proprio la villetta di via Sofocle al numero 11, a poche centinaia di metri dal complesso monumentale. Nonostante la villa del boss fosse passata, almeno sulla carta, nelle mani dell’Agenzia dei beni confiscati, Di Salvo ha continuato ad abitarla insieme alla sua famiglia. E nessuno sembra essere riuscito a farlo sgomberare.
SICARIO NEL MIRINO
Molto più incisiva la capacità di Cosa nostra nell’eseguire le sentenze. «Poco tempo fa avevo capito che volevano uccidermi», racconta Flamia. «Avevo compreso che c’era qualcosa che non andava e si preparava un progetto di morte per me. In tutto questo ho visto il disinteressamento nei miei confronti di Gino Di Salvo. Il suo atteggiamento mi ha sorpreso perché se sei a capo di una famiglia mafiosa e il tuo collaboratore più stretto ha queste paure e te ne freghi allora sono due le cose: la prima che non sai controllare bene ciò che accade attorno a te; la seconda è che non vedi l’ora che ti tolgono davanti questo collaboratore. E questo era il caso mio». Ma non è facile prendere di mira un sicario: «Sapere che si stanno muovendo per uccidermi non mi ha messo paura, anche perché ho iniziato a prendere le contromisure e liberarmi dei nemici».