Maurizio Maggi, L’Espresso 25/4/2014, 25 aprile 2014
SE TORNA LA LIRA
È uno scenario al quale non voglio credere, perché assisteremmo a un crollo dei consumi e ci troveremmo in un clima di economia di guerra», dice Giorgio Santambrogio, direttore generale di Interdis, il gruppo distributivo con oltre 1.600 supermercati, supermercatini e cash&carry (tra cui Sidis, Dimeglio, Etè e Migross). «Sarebbe una catastrofe, proprio adesso che tantissimi investitori internazionali stanno puntando sull’Italia. La mia società compra la materia prima, come la soia, in Francia e in Canada. Se dovrò pagarla in lire mi costerà parecchio di più, e l’aumento si mangerà tutto il vantaggio di una ipotetica svalutazione della nuova moneta», spiega Lorenzo Sassoli de Bianchi, patron della Valsoia e presidente dell’Upa, l’associazione degli utenti pubblicitari. «Mamma mia, speriamo proprio che non succeda! La lira perderà valore, da un minimo del 20 a un massimo del 40 per cento, le famiglie ridurranno la mole dei loro “acquisti ripetuti”, quelli tipici del largo consumo, e non escludo che nel mio settore, quello della birra, qualche concorrente estero decida di abbandonare il mercato, com’è accaduto in Grecia», sostiene Alberto Frausin, amministratore delegato di Carslberg Italia. Manager e imprenditori del Bel Paese, a larghissima maggioranza, non vedono niente di buono in un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro. Un argomento che, con l’avvicinarsi delle elezioni per il Parlamento europeo, viene agitato con sempre maggior vigore dalle forze politiche di opposizione. Dopo i risultati del voto amministrativo in Francia, gli attacchi all’euro del Movimento 5 stelle, di Forza Italia e della Lega Nord sono decisamente saliti di tono. Costringendo anche chi considera assurdo l’abbandono della moneta comune a ipotizzarne gli impatti sul proprio business. E a incrociare le dita con sempre maggior convinzione. CROLLA IL MATTONE
Anche la casa, un fronte che sembrerebbe distante dalla guerra delle valute, è destinata a soffrire di brutto se facciamo“ciao ciao”all’euro. I tassi sui prestiti per acquistare un alloggio, che oggi viaggiano mediamente poco sopra il 5 per cento, triplicherebbero in un batter d’occhio. A patto di trovare qualcuno che te li presti, i quattrini da piazzare su un tavolo, quello del mercato immobiliare, destinato a traballare, con sensibili cali su quotazioni già duramente stressate da anni di crisi. «Le banche italiane, una volta fuori dal circuito dell’euro, non avrebbero più accesso ai capitali, se non a prezzi impossibili. E l’erogazione dei mutui, già faticosa da tempo, crollerebbe», prevede Roberto Anedda, direttore marketing di MutuiOnline.it. Rincara la dose Daniele Mancini, amministratore delegato di Casa.it, il più importante sito di annunci online, che fa capo al gruppo del magnate australiano Rupert Murdoch: «Giro il mondo per lavoro e studiando il mercato immobiliare e l’economia del Sudamerica sono sempre più convinto che essere nell’euro è un punto di forza. Uscendo, al valore delle case succederebbe l’opposto di quanto accadde alla nascita dell’euro: un appartamento quotato 500 mila euro, dal giorno dopo sarebbe valutato 500 milioni di lire».
ONDATE DI RICORSI
Le conseguenze di un addio sarebbero nefaste pure per Giorgio Boggero, amministratore delegato di Cloetta Italia, azienda dolciaria che controlla i marchi Saila, Dietorelle, Sperlari, Galatina, Pasticca del Re Sole: «Vedo già l’esercito davanti alle banche, mentre la gente fa la coda per ritirare i propri soldi prima dell’inesorabile e clamorosa svalutazione della nuova lira, insomma le stesse scene vissute in Argentina. L’Italia ha un saldo positivo tra export e import, indipendentemente dall’euro. Ma è importatrice netta di materie prime, è un Paese trasformatore. La gomma arabica per produrre le nostre caramelle, per esempio, noi l’acquistiamo in Sudan e la paghiamo in dollari. E dall’estero arrivano l’amido e, in parte, liquirizia, cioccolato e frutta secca. Se i prezzi s’impennano, e metto in conto pure l’inevitabile incremento della bolletta energetica, produrre ci costerebbe molto di più e non ci sarebbero molte alternative: o chiudiamo, o ribaltiamo sul consumatore gli aumenti dei costi, mentre la gente tira la cinghia e quindi riduce gli acquisti d’impulso, come quelli delle caramelle», sottolinea Boggero, che guida un gruppo con quattro stabilimenti e 470 addetti italiani (di cui 330 in fabbrica). Fieramente contrario anche al solo pensiero di una “new lira” si dichiara pure Mario Mantovani, vicepresidente di Manageritalia, una delle principali associazioni dei dirigenti italiani. «Se immaginiamo un addio unilaterale dall’euro, cioè non concordato con l’Unione europea, prenderà corpo il più grande contenzioso della storia: in un Paese dall’infinito numero di leggi, per di più complesse, i tribunali sarebbero sommersi da uno tsunami di cause intentate da chi intende mantenere il rispetto delle intese commerciali in euro e da chi invece vuol passare alla lira. Siamo la nazione dei contenziosi, non perderemmo certo l’occasione di passare alla storia, anche a costo di bloccare l’economia. Comunque non sono realmente preoccupato, giacchè ritengo che le conseguenze sarebbero talmente catastrofiche che nessuno sano di mente potrà davvero portarci alla rovina uscendo in solitudine dall’euro».
EXPORT SOTTO TIRO
Gli anti-euro gridano ai quattro venti che, svalutando la propria divisa come negli anni Novanta, l’export tricolore metterebbe il turbo. Ma il 60 per cento del valore dei prodotti italiani, ha calcolato il Centro studi della Confindustria, è composto da materie prime e semilavorati importati. Inoltre, spiega Fabrizio Guelpa, responsabile della ricerca su Industrie e Banche del Servizio studi di Intesa Sanpaolo, «la sensibilità al cambio delle nostre esportazioni si è notevolmente ridotta negli ultimi anni perché si compete sempre di più sulla qualità e l’innovazione dei prodotti e sempre meno sul prezzo». Il deprezzamento della nuova moneta farebbe crescere l’export in misura assai minore di quando c’era la vecchia lira anche se qualche ci sarebbe, inizialmente. Ma durerebbe piuttosto poco e riguarderebbe solo, o quasi, chi all’estero vende ma non si approvvigiona oltre confine. E molte aziende potrebbero puntare tutto sulla svalutazione e rinunciare a spingere sui pedali dell’innovazione e della qualità produttiva, che sono le armi che hanno permesso all’export tricolore di reggere l’urto della recessione. «Senza dimenticare che sarebbero possibili ritorsioni da parte degli altri Paesi, per esempio con l’introduzione dei dazi sulle merci provenienti dall’Italia», puntualizza l’esperto di Intesa Sanpaolo.
Non ci potremmo consolare neppure con un’ipotetica autarchia in cucina. «Ogni giorno, per l’Italia girano migliaia di camion che trasportano prodotti alimentari, compresi quelli freschi e freschissimi. Il prezzo del gasolio, penalizzato dalla perdita di valore della lira, potrebbe crescere anche del 40 per cento, incrementando drammaticamente i costi della logistica. Negozi e supermercati sarebbero costretti obtorto collo ad aumentare sensibilmente i prezzi e si scatenerebbe un’inflazione galoppante», sostiene Santambrogio di Interdis. Una svalutazione del 35 per cento, secondo il manager milanese, finirebbe per ricadere sugli scontrini con aumenti almeno del 15 per cento: «E siccome nella distribuzione già oggi la concorrenza è spietata e ci si fa la guerra sui centesimi, tanti negozi e supermercatini sarebbero destinati a fallire». Una prospettiva tragica, considerando che economisti non certo inclini alle “sparate” clamorose, immaginano che la svalutazione possa risultare anche molto più elevata. L’ex docente della Bocconi, Guido Tabellini, non si stupirebbe di vederla superare il 50 per cento. Di errore drammatico, parlando di divorzio dall’euro propedeutico a una ripresa della competitività italiana, parla Alberto Baban, imprenditore veneziano e presidente dei “piccoli” di Confindustria. «L’aumento di competitività ottenuto con la svalutazione è un’illusione, gli effetti positivi sarebbero effimeri e di breve durata. Il rublo ha perso in breve tempo il 25 per cento del suo valore: quali vantaggi ha provocato? Ai russi, nessuno, anzi. Acquistano meno prodotti in dollari e in euro e in estate viaggeranno meno all’estero per turismo, danneggiando quindi anche l’industria dell’ospitalità italiana. Se davvero dovessimo uscire dall’euro, in ogni caso, smetto di fare l’imprenditore e mi metto a fare il consulente».
TASSI FUORI CONTROLLO
L’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, in un’intervista a “Repubblica”, ha definito folle l’idea di uscire dall’euro, sottolineando che, dal giorno dopo, i Btp varrebbero il 40 per cento in meno mentre i tassi d’interesse potrebbero schizzare al 30 per cento. «Sarebbe un vero harakiri, farlo ora che abbiamo i rendimenti dei titoli di Stato ai minimi storici», è il grido d’allarme di Giulio Casuccio, capo del reddito fisso della società di gestione Fondaco Sgr. «L’attuale rating dell’Italia è BBB-, e paghiamo interessi assai bassi su Bot e Btp. Turchia e Filippine, che hanno il nostro stesso rating, già oggi sborsano 2-3 punti percentuali in più. A bocce ferme, potremmo allinearci a questi due paesi, ma inizialmente i rendimenti dei titoli di Stato italiano schizzerebbero in alto». E prevedendo una situazione del genere, Claudia Vacanti, responsabile investimenti di Banca Generali, si augura di «aver venduto tutti i titoli italiani un minuto prima dell’uscita dall’euro. E dopo? Rientreremmo sui Btp e torneremmo a investire sulle tante aziende dell’eccellenza italiana, sperando che il governo non perda il controllo della leva fiscale e non faccia continuare a salire il rapporto tra deficit e Pil». Anche chi, nel proprio business, potrebbe trarre vantaggio dalla situazione, preferirebbe che l’Italia restasse nell’euro. È il caso di Gabriele Vedani, general manager per l’Italia della londinese Fxcm, big del brokeraggio sulle valute: «Con la nuova lira il mercato dei cambi sarebbe molto più volatile, e per noi più si va sulle montagne russe e meglio vanno gli affari. Con i tassi in salita, però, in Italia crescerebbe il costo del debito per lo Stato, le aziende e le famiglie, innescando una spirale molto pericolosa per l’intero Paese». I titoli emessi dal Tesoro, dovendo offrire remunerazioni ben superiori alle attuali, si tradurrebbero, secondo Guelpa di Intesa Sanpaolo, «in un costo aggiuntivo della spesa per interessi di almeno 30-40 miliardi di euro, cioè dieci volte il peso dell’Imu sulla prima casa. Quindi, inevitabilmente, il ritorno alla lira provocherebbe notevoli svantaggi fiscali agli italiani».
CAPITALI IN FUGA
Più tasse, mutui alle stelle, case che perdono di valore, fallimenti e maggiore disoccupazione: davvero un bel risultato. Alessandro Carretta, che insegna Economia degli intermediari finanziari a Tor Vergata ed è il segretario generale di Assifact, l’associazione italiana per il factoring, sottolinea che, dall’euro, non si può peraltro uscire girando un interruttore. «Si può facilmente immaginare quanti quattrini gli italiani cercherebbero di portare all’estero per mettersi al riparo dalla svalutazione della loro futura moneta. Per evitare la fuga, il governo dovrebbe introdurre delle limitazioni ai movimenti di capitale, e potrebbe non bastare, perché tanta gente sarebbe tentata di cucirsi i risparmi nei pantaloni per passare il confine alla chetichella. A quel punto, si dovrebbero porre dei limiti pure ai prelievi dai conti bancari, consentendoli solo se accuratamente motivati». In parole povere, secondo il professore dell’università romana, si creerebbe un incredibile effetto-panico.