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 2014  aprile 25 Venerdì calendario

FUKSAS CI STA COSTANDO UNA NUVOLA DI SOLDI


ROMA Venti milioni di euro per essere in ritardo di oltre tre anni e non avere ancora completato un’opera che dal 1998 risucchia soldi su soldi. Non è l’unica accusa. Insieme ai tempi di esecuzione raddoppiati, ci sono anche le numerose varianti e il «rilevante aumento dei costi», da leggere insieme all’eccessivo ricorso ai subappalti. Tutti questi elementi compongono la relazione assolutamente negativa della Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture, Ente che due giorni fa ha definitivamente bollato come «eccessivi» i costi della «Nuvola» di Massimiliano Fuksas. Soprattutto è stata ritenuta «sproporzionata» la parcella milionaria dell’archistar «rispetto all’attività realmente eseguita»: 20 milioni senza avere portato a compimento la teca di vetro e acciaio che avrebbe dovuto essere inaugurata il 2 dicembre 2010.
Tra il 1998 e il 2000 era stata sancita la vittoria del famosissimo architetto nell’aggiudicarsi il concorso di progettazione di Eur S.p.A., che voleva un progetto preliminare del Nuovo Centro Congressi dell’Eur, a Roma. In questi 16 anni, secondo l’Authority, l’esecuzione dell’opera è stata caratterizzata da «numerose varianti» che, oltre a determinare un «rilevante aumento dell’importo contrattuale», hanno influito sui tempi di realizzazione e comportato l’insorgere di un contenzioso tra stazione appaltante ed appaltatore. Basti pensare, del resto, che non troppo tempo fa ci vollero due anni solo da parte del Comune di Roma per approvare una «non sostanziale» modifica. Mentre i conti da pagare lievitavano.
Altre varianti appaiono invece riconducibili a carenze e «inadeguate rappresentazioni dello stato di fatto del progetto esecutivo che si sarebbero potute evitare». Ma soprattutto, leggendo le 14 pagine della relazione dell’Autorità, si capisce come sia considerato di «di particolare rilievo la sproporzione delle ingenti somme corriferimento ai massacri ottomani ed era rimasto l’ultimo Stato tedesco a parlarne in un testo scolastico; secondo Die Welt, era la mera conseguenza di pressioni esercitate da Ankara.
Non meno triste che il negazionismo turco, a lungo, sia andato a braccetto con quella parte del mondo ebraico, appunto, ben decisa a sostenere l’unicità dell’Olocausto: Elie Wiesel e le più importanti organizzazioni ebraiche si ritirarono da un convegno internazionale giacché i suoi organizzatori avevano incluso anche il caso armeno nel programma. Nel gigantesco Holocaust Memorial di Washington, per pressioni turche e israeliane, ogni riferimento agli armeni era stato eliminato. Ma c’è anche un’altra realtà, per fortuna: ci sono studi e seminari anche israeliani dove i genocidi non vengono messi in contrapposizione bensì analizzati in parallelo, e il vice-ministro degli esteri israeliano Iosi Beilli, in Parlamento, nel 1994, affermò che lo sterminio degli armeni era stato un
genocidio punto e basta. In Italia, in compenso, abbiamo l’Unità: nell’ottobre 2006 si scagliò contro la legge francese che tutelava gli armeni in quanto «finisce per relativizzare l’unicità dell’Olocausto».
Eppure, dell’Olocausto, quel genocidio fu quasi concausa. Nel 1915, in piena Guerra mondiale, il regime dei Giovani Turchi fece deportare gran parte degli armeni di Turchia nelle lontane terre dell’Anatolia orientale: stiamo parlando del quaranta per cento della popolazione armena massacrata nel corso di poche settimane. Ebbene, svariate fonti storiche spiegano che Adolf Hitler, nel prefigurare lo sterminio degli ebrei, si ispirò chiaramente a quello degli Armeni, tanto da dire il discorso fu pronunciato il 22 agosto 1939 che nell’invadere la Polonia occorreva massacrare «uomini e donne e bambini» senza preoccuparsi di eventuali conseguenze future: «Chi mai si ricorda oggi», si chiese, «dei massacri degli Armeni?». Forse gli armeni. Nonostante i turchi. E nonostante Erdogan, quello delle «condoglianze». E nonostante il suo di Erdogan articolo 301 del Codice Penale, quello che vietava genericamente di offendere l’identità turca. Erdogan è lo stesso signore che il 14 aprile 2006 ordinò che gli alunni turchi scrivessero un tema sulle false affermazioni di genocidio riguardanti gli armeni, e che poi, non pago, indisse un concorso sul tema «La ribellione armena durante la prima guerra mondiale».
PECORE E CERVI
Erdogan è colui che giunse a far cambiare tutti i nomi degli animali che facevano riferimento all’Armenia: la pecora Ovis Armeniana diventava Ovis Anatolicus, il cervo Capreolus Armenus diventava Capreolus Cuprelus. Ora, però, siccome sembra interessato ad accordarsi con l’Armenia in chiave anti-russa, o chissà che altro, Erdogan si è alzato una mattina e ha fatto le condoglianze: «Quello che è successo durante la prima guerra mondiale è motivo di dolore per tutti». Sì, ma occorrerebbe mettersi d’accordo su quello che è successo, almeno. Più ancora che le sofferenze degli armeni, il punto centrale resta la presenza o meno di premeditazione: se il regime dei Giovani Turchi, ossia, avesse organizzato intenzionalmente l’azione che portò centinaia di migliaia di uomini (e donne e bambini, sloggiati dalle loro case senza preavviso) a una penosa marcia della morte.
Ma queste, in fondo, sono paturnie da impallinati sui diritti umani. A opporsi all’ingresso della Turchia in Europa (71 milioni di musulmani) del resto erano solo quattro gatti leghisti e comunisti, solo a poco tempo fa. Berlusconi magnificava «il grande amico» Erdogan, la sinistra faceva il pesce in barile, il Vaticano taceva per paura di ritorsioni contro i cristiani armeni. E i giornalisti? Nel novembre 2006 Napolitano andò ad Ankara e auspicò «l’ingresso della Turchia come Stato membro», ma gli inviati italiani gli fecero solo domande sul presidenzialismo. Intanto l’Herald Tribune e altri giornali del mondo si occupavano del caso Turchia per davvero, anche perché Ankara guardava apertamente all’Iran di Ahmadinejad e a una partnership militare con la Siria: le repressioni e i giri di vite contro la stampa, in Turchia, erano all’ordine del giorno. C’era Erdogan. C’è ancora.