Oriana Liso, la Repubblica 25/4/2014, 25 aprile 2014
MANTOVA, TRA GLI ULTIMI DETENUTI-MALATI
Li chiamano ergastoli bianchi, anche quando non durano una vita. A Castiglione c’è un ospite — che è sempre il modo più pietoso di chiamare i reclusi — rinchiuso da un quarto di secolo. C’è Christian, che non dovrebbe stare qui: ha una disabilità mentale, ma i servizi sociali del suo comune non se ne vogliono fare carico. C’è Moses, giovane ghanese arrivato a Lampedusa sui barconi, per due anni in campo profughi a Torino e adesso qui, perché un ordinamento storto e barocco non sa
dove mandarlo.
Castiglione delle Stiviere è un ospedale psichiatrico giudiziario unico nel suo genere, in Italia. Qui non ci sono agenti di polizia penitenziaria, alte mura, fortini di vedetta, ma medici, infermieri, assistenti sociali e cancelli, alti e solidi, che permettono di vedere il mondo fuori, quella campagna mantovana punteggiata di piccole aziende, di vita vera.
L’ultima rilevazione sulle presenze racconta di 291 ospiti per una capienza ufficiale di 190 posti: 199 uomini, per la maggior parte lombardi, 92 donne che arrivano da tutta Italia, perché tra le particolarità di Castiglione c’è anche quella di essere l’unica struttura con un reparto femminile. È impietosa l’analisi di chi ci lavora: «In una società in crisi, quando le risorse per il welfare sono sempre meno, luoghi come l’Opg o il carcere finiscono per essere l’ultima spiaggia. Molte persone sono qui perché il territorio ha fallito o perché sul territorio non si è investito», dice Gianfranco Rivellini, responsabile della sezione femminile. E Cesare Maria Cornaggia, psichiatra che qui segue molti casi: «Gli Opg verranno superati soltanto quando ci sarà la riforma del codice penale e del concetto di pericolosità sociale ». Lo dicono, i medici di Castiglione, con la forza dei numeri: 220 delle persone attualmente ospitate non hanno avuto dal giudice la proroga della misura di sicurezza, la durata media della permanenza è scesa dai 4,9 anni del 2001 ai 2,8 di oggi e, soprattutto, la reiterazione del reato, per chi esce, è bassissima. Merito del modello Castiglione, oltre che di una nuova e timida disponibilità da parte di alcune regioni e alcuni comuni di farsi carico delle situazioni in uscita. Qui non si fa la valutazione clinica del malato-detenuto limitata al momento in cui ha commesso il reato, quello in cui era secondo la legge incapace di intendere e volere. Si ricostruisce il suo percorso, si cerca di capire quando e se è pronto a tornare nel mondo, prima in una comunità e poi — nei casi migliori — con una casa e un lavoro in autonomia. Sempre che il mondo sia pronto, e qui si torna allo sforzo culturale. «Chi è fuori si chiede: se quella persona ha ucciso una volta, non potrebbe rifarlo? Perché devo rischiare io di avere a che fare con lui? Su questo bisogna lavorare»: Andrea Pinotti dirige da poche settimane Castiglione, ma era già
qui anni fa, quando passavano ospiti come Pietro Carretta, l’infermiera killer Sonya Caleffi, le tante mamme che ammazzavano (e continuano ad ammazzare) i loro bambini. Quasi mai i neonati, dicono le statistiche: ma i bimbi appena più grandi, nel momento in cui iniziano ad avere una loro autonomia. È allora che, nella testa di quelle mamme, qualcosa — ma qualcosa che c’era già — si rompe. Per ognuna e ognuno di loro c’è un percorso di cura personalizzato, con qualche passaggio comune: trattamento farmacologico, misure contenitive nelle fasi di violenza, controllo costante quando c’è il rischio suicidio, «quando il malato prende coscienza di quello che ha fat-
to», conferma Pinotti. Nei casi migliori c’è anche un altro passaggio chiave: la richiesta di andare a vedere la tomba della persona uccisa, o il luogo in cui è avvenuto l’omicidio. Lo fanno soprattutto le mamme, con i loro bimbi.
A camminare per i viali della struttura — tra edifici puliti, campetto da calcio, piscina, laboratori, palestra, bar, biblioteca — c’è da pensare che tra stare qui e stare in carcere la scelta verrebbe ovvia a chiunque. E invece Omar, arrestato per furto e portato qui perché ha dato in escandescenza, non ha dubbi: «Io voglio andare in carcere, non stare qui con i matti». Nessuno qui dentro — ed è forse una premessa scontata — si considera matto. C’è chi parla di errore, chi di un momento di crisi,
chi dà la colpa alla droga e chi a una delusione, per il reato commesso, che si parli di omicidio (uno su quattro è qui perché l’ha commesso o l’ha tentato) o di stalking.
Anna — a Castiglione da sei mesi proprio per quest’ultimo motivo, ma candidata a tornare presto nel mondo — lo chiama «un momento di debolezza, che ha reso la vita difficile a me stessa, non solo agli altri». Un buco nero che l’ha portata a una convivenza forzata e non sempre piacevole, in cui anche le relazioni fisiche e affettive sono amplificate e dove ogni momento può scoppiare una lite. Per una sigaretta, per un caffè, o per chi spera e sogna di uscire prima.