Maria Luisa Agnese, Corriere della Sera 25/4/2014, 25 aprile 2014
MARTINA MONDADORI
L’amore per i libri Martina Mondadori Sartogo l’ha respirato da bambina sulle orme di papà Leonardo che la portava con sé dagli scrittori, alle mostre, nei breakfast di lavoro. «Ricordo una visita quando avevo 17 anni da Thomas Harris l’autore del Silenzio degli Innocenti, in un paesino di Long Island, non di quelli famosi. E lì, nella sua casa, l’ho visto mangiare con voracità, una cosa dietro l’altra con una passione talmente spasmodica che non ho provato nessuno stupore per il fatto che uno così si fosse inventato Hannibal il Cannibale: un’epifania».
Adesso che è editrice in proprio di un gruppo di riviste di alta gamma Martina punta all’eccellenza dei contenuti chiamando intorno a sé un mix di suggeritori e intellettuali dal mondo, di età variabile: «I tuoi coetanei ti danno l’energia, ma gli adulti ti danno l’esperienza, e il lavoro è fatto di esperienza: la coesistenza è impagabile!». In barba a ogni idea di rottamazione? «Mi piace parlare con i miei coetanei come Carlo Mazzoni o Ambra Medda o Ginevra Elkann, ma mi dà la carica misurarmi con persone come Francesco Bonami o Kristof Radl che sono più grandi di me. Le risorse vanno cercate dove davvero sono. Altrimenti c’è il rischio che il problema dei giovani e le quote rosa diventino il tabù della donna e dei giovani. Tutto giusto, però attenti a non passare all’estremo opposto, a considerare i giovani e le donne come una casella da riempire e poi credere che tutto sia a posto».
Pe questo anche per l’ultima rivista, Cabana , dedicata al design e al lifestyle, copertina in stoffa e contenuti prestigiosi, ha voluto un mixage di cervelli che non tiene conto dell’anagrafe e per festeggiarne l’uscita ha riunito nella casa di famiglia, a Milano un gruppo di artisti e di personaggi dal mondo (Martino Gamper, Edward Barber, Antonio Citterio, Bethan Laura Wood con sopracciglia multi colore) che sciamavano nei solidi e tradizionali saloni di una dimora di una volta.
Avere un cognome
Avere radici, un cognome importante aiuta e fa fare esperienze privilegiate? «È un’opportunità, non nascondiamoci dietro la foglia di fico. Non è mai stato un problema per me». Non è d’accordo dunque con Alice Fuksas, rampolla dell’architetto che per liberarsi dell’ingombrante marchio di famiglia ha dovuto addirittura scrivere un libro, Figlia di , fresco di stampa? «Credo sia meglio un po’ di autoironia, anche perché del tuo cognome non te ne puoi liberare. E poi dipende molto da che padre hai avuto, io ringrazio mio padre Leonardo che mi ha dato delle chance nella vita quotidiana, un bagaglio di conoscenze e di curiosità, mi ha fatto incontrare tanti scrittori, anche se alcuni è meglio leggerli e basta, non conoscerli. Papà mi chiamava ogni mattina alle 8, prima che io andassi a scuola e lui in ufficio, eravamo entrambi mattinieri e ci sentivamo a quell’ora perché non abbiamo praticamente mai vissuto sotto lo stesso tetto, i miei genitori si erano separati quando ero molto piccola. Erano soprattutto gli anni delle medie e poi del liceo, ma eravamo molto legati, lui era un vulcano a quell’ora, un’esplosione, si svegliava con le idee, magari ne realizzava tre su dieci: ma avercene! Era una palestra di curiosità, di apertura sul mondo».
Creare il sogno
«L’editoria oggi ha sete di contenuti come mai prima d’ora. Ma i contenuti non li inventi dalla sera alla mattina. Noi siamo privilegiati perché con le nostre riviste, L’Officiel Anew, Cabana, abbiamo un target alto, usciamo quattro volte l’anno, e possiamo progettare e scegliere il meglio in tutti i campi. Ma la cultura popolare non è Belen spalmata su tutte le copertine da Chi a Vanity ad AD, la cultura popolare è il contrario, i grossi nomi resi accessibili a tutti, come sono stati gli Oscar. Nel 2004 per Electa ho portato a tutti i grandi artisti contemporanei, biografie semplici, addirittura con le freccette, a prezzo accessibilissimo. Il resto magari vende, ma snaturi. Anche il marketing culturale è più forte se non è diretto sul prodotto, ma subliminale. Così crei il sogno. Prada per esempio è un centro di produzione di cultura di avanguardia. Segue l’arte ma anche il cinema, sceglie gli artisti giovani, ora anche i giovani scrittori con il Prada Journal, li aiuta con un concorso. Vuitton in Germania a Monaco ha aperto uno spazio culturale indipendente dai negozi, in cui fa mostre d’arte contemporanea con curatori e artisti d’avanguardia. È più ampio del marketing, è comunicazione, se vuoi usare un nome nobile è filantropia. Anche gli sceicchi, i russi vanno su questa strada. Purtroppo l’arte e la cultura non han pagato solo in Italia, dove chi ha i soldi compra la squadra di calcio. Invece bisogna restituire alla società. Certo, poi se ci sono le agevolazioni fiscali è meglio: Renzi dovrebbe metterlo nel suo pacchetto di riforme, come prima voce». In passato lei anche ha parlato alla Leopolda, ci scommette su Renzi? «Mah, al 30 per cento è sinistra, al 30 Berlusconi, al 30 Grillo». E il resto, il 10 per cento? «È lui».
Londra, che passione
A Londra Martina abita da due anni con il marito Peter Sartogo che là lavora, e i due figli Leonardo, cinque anni e mezzo, e Tancredi, tre e mezzo. «Qui impari, capisci come in nessun’altra città al mondo cosa vuol dire legare la tradizione con i suoi simboli — la monarchia e il resto — con il futuro. Una città che è proiettata in avanti, che pullula in tutti i suoi ambienti di creativi, galleristi, musicisti, qui arriva la moda ma anche la New economy, arrivano le aziende della Silicon Valley con agevolazioni (fiscali, affitti bassi), se fatturi fino a 50 mila sterline l’anno hai zero tasse, non hai bisogno di partita Iva, è tutto più snello».
Il confronto «globale»
Mamma di due figli maschi in un sistema che sarà sempre più competitivo: «Anche qui essere mamma in Inghilterra mi ha insegnato molto. All’asilo ti guardi intorno e vedi mamme di altre nazionalità e ti metti in gioco. Tu dici a tuo figlio: “Stai attento, hai sbagliato”. Loro dicono: “Hai sbagliato, non importa”: è un insegnamento in positivo, incoraggiano, non rimproverano. In questo le prime sono le inglesi, molto spartane, zero protettive; poi vengono le asiatiche e le americane. Attrezzano meglio i figli per la competizione globale, danno quella che chiamano self confidence, sicurezza in se stessi, che la mia generazione non ha avuto. È la capacità di credere nelle tue idee e anche di venderle. Noi invece quasi ci vergogniamo. A noi italiani manca questa sicurezza, forse per i sensi di colpa del cattolicesimo. Ecco perché poi non comunichiamo neppure un brand forte come l’Italia».