Vittorio Sabadin, La Stampa 24/4/2014, 24 aprile 2014
I GIOCATTOLI CHE CI FANNO MASCHI (O FEMMINE)
Le donne fanno ormai quasi tutto quello che fanno gli uomini, e giustamente si battono da anni contro gli stereotipi che differenziano il genere maschile da quello femminile.
Ma allora perché le stesse donne che hanno conquistato la parità dei sessi regalano alle loro bambine bambole e vestiti rosa da principessa e ai loro bambini pistole da cow-boy e auto radiocomandate? La lunga lotta per l’emancipazione femminile non ha ancora scardinato uno dei baluardi della differenza di genere: il negozio di giocattoli.
Il problema è più serio di quanto sembri ed è oggetto di dibattito in molti Paesi del mondo, dove sono nati comitati di genitori che hanno chiesto alle multinazionali dei prodotti per bambini di non differenziarli più tra maschili e femminili. Negli Stati Uniti è famosa la battaglia di Antonia Aires-Brown, cominciata quando aveva solo 11 anni e vinta pochi giorni fa, che ha chiesto a McDonald’s di abolire la distinzione maschietti-femminucce nella distribuzione degli Happy Meal Toys.
Altre campagne, in America, Inghilterra e Australia, hanno puntato a cancellare nei grandi centri di distribuzione come Toys R Us e Marks and Spencer ogni accenno alla distinzione di genere negli scaffali dei giocattoli, e per chiedere alla Disney di ridimensionare un po’ i 26 mila prodotti «da principessa» che vende nei suoi negozi.
In Inghilterra, Ross e James Ball hanno deciso di mettere online un diario della vita dei loro bambini, Josie di tre anni e Clem, un po’ più grande, per verificare se, quando e come avrebbero scoperto la differenza di genere. Volevano verificare con un metodo empirico se la divisione tra rosa e blu è innata, se la femmina è davvero destinata a essere passiva, gentile e carina e il maschio a diventare aggressivo, attivo e forte.
Ross e James hanno visto che, nel negozio di giocattoli, il maschio non aveva problemi a scegliere una tiara rosa da mettersi sul capo, o una pila a impulsi luminosi dello stesso colore. Era il proprietario del negozio a proporgli di cambiare i giocattoli almeno nel colore: per un maschietto come lui era più adatto il blu.
Kira Cochrane, in un articolo su «The Guardian» dedicato al problema, ha citato un libro di Jo B. Paoletti, una docente all’Università del Maryland, che ricorda come nell’epoca Vittoriana i bambini fossero tutti vestiti uguali, senza differenza di genere. Solo nel secolo scorso si è cominciato a far pagare loro un prezzo sociale molto alto, se manifestavano gusti diversi agli stereotipi dominanti.
Un maschio che giocava con le bambole o vestiva di rosa veniva e viene ancora ridicolizzato, le bambine con i capelli corti sono prese in giro dalle amiche. Si giudica tuttora strano che le donne si interessino alla matematica, alla scienza, alla tecnologia e alle costruzioni, e si dimentica che anche i giocattoli hanno un ruolo formativo per il lavoro che si sceglierà in futuro e per la vita da adulti.
La colpa, si dice, è del mercato: se la differenza di genere esiste, si vendono molti più giocattoli, perché i genitori non potranno passarli dalla femmina al maschio. Ma non può essere così semplice. Forse la differenza di genere è nel nostro subconscio culturale e da genitori non riusciamo a liberarcene. Forse esiste davvero, e non ci sarebbe niente di male. Almeno finché un genere non volesse prevalere sull’altro, costringendolo a ribellarsi.
Vittorio Sabadin, La Stampa 24/4/2014