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 2014  aprile 18 Venerdì calendario

LA PSICOLOGIA CHE INVENTA I SUOI MALATI

[Intervista a Jerome Kagan] –

New York.
Tutti, prima o poi, hanno della carie. Ma nessuno ne desume una condizione anormale di vulnerabilità che solo pochi individui possiedono. La depressione riceve un trattamento molto diverso. Basandosi sui sintomi, senza indagare troppo sulle cause, le si mette tutte nello stesso cesto.
Chiodi diversi da battere con lo stesso martello, quello più grosso, farmaceutico. Big Pharma registra profitti record a partire da quando, negli anni Ottanta, la timidezza venne ribattezzata «fobia sociale». La prima edizione del Dsm (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), bibbia delle malattie mentali, nel ’52 tipizzava cento disturbi. La quarta trecento. La quinta, licenziata l’anno scorso, li allarga ulteriormente ed è stata accusata di «abolire la normalità».
La superfetazione ha qualcosa a che vedere con il fatto che il 70 per cento della commissione di esperti che l’ha redatta avesse rapporti con l’industria? Sia quel che sia, i cittadini hanno poco da stare tranquilli. «Si è in presenza di una malattia mentale quando un disturbo riduce o impedisce il normale funzionamento di chi ne soffre» spiega Jerome Kagan, uno dei pionieri della psicologia dell’età dello sviluppo, celebre per gli studi a Harvard sul temperamento come caratteristica tendenzialmente immodificabile dei bambini, discorrendo dell’edizione italiana del suo I fantasmi della psicologia (Bollati Boringhieri). Ma essere distrutti se è morto un figlio è perfettamente naturale, non sintomo di chissà quale tendenza depressiva. E basta anche molto meno per esere legittimamente tristi. Quindi, per il benessere della popolazione – e una migliore reputazione della psichiatria – bisognerebbe ricominciare a distinguere tra malesseri congiunturali e altri che hanno invece radice biologica in chi li prova. La vita è la strada che si riesce a fare tra una caduta e un’altra. O, come suggerisce Kagan citando un personaggio di Finale di partita di Samuel Beckett: «Sei sulla Terra, non c’è cura per quello».
Perché la medicina eccede nella diagnosi della depressione?
«Ci sono molti motivi. In primo luogo è normale essere depressi quando si è poveri, si è persa una persona amata o si è ammalati. Prima si pensava che questo stato d’animo fosse naturale e non una malattia. Nel XX secolo, dopo Freud, nell’Occidente è passata l’idea che ogni seria deviazione dalla felicità fosse anormale. Quindi a chi si sentiva depresso veniva detto che aveva una malattia mentale. Il secondo motivo è che quando esiste una medicina per una malattia, la sua presenza cresce. Dopo gli anni Settanta le compagnie farmaceutiche hanno creato farmaci per la depressione e i medici hanno cominciato a diagnosticarla più spesso. Terzo: l’aumento di ineguaglianza economica, ancora a partire dagli anni Settanta, ha creato un gran numero di adulti che si sono sentiti marginalizzati, quindi depressi. Quarto: sempre più giovani competono per entrare nelle università migliori, chi fallisce nel prendere buoni voti si deprime. Infine sempre più adulti vivono oltre i 65 anni e vanno incontro a malattie serie che, naturalmente, favoriscono la depressione».
Dove mette il confine tra depressione come temporanea condizione umana e depressione come malattia da curare farmaceuticamente?
«Vedo due differenze fondamentali tra depressione normale e anormale. La seconda dura per oltre sei mesi e coincide con unostato mentale che impedisce a una persona di svolgere le sue normali attività. Oltre a ciò, chi ha una vera depressione di solito ha ricadute».
Più in generale, oltre quale punto un tratto della personalità, ad esempio la timidezza, può diventare una malattia?
«Una malattia mentale dovrebbe essere definita sia dai sintomi che dalla sua causa. Oggi però per la diagnosi ci si basa solo sui sintomi. Le malattie mentali meno comuni sono le psicosi: schizofrenia, disordine bipolare, autismo. Hanno una base biologica, che va ancora scoperta, ma anche le società antiche le riconoscevano come malattie. Poi ci sono l’ansia, la depressione o entrambe. Questi sintomi, solo in alcuni casi hanno una base biologica. In altri sono provocati dalle circostanze della vita. La terza categoria riguarda infine l’incapacità di controllare alcune urgenze mal viste in una determinata società.
Prima nessuno avrebbe pensato di diagnosticare i bambini vivaci come affetti da Adhd, il cosiddetto disturbo da deficit di attenzione-iperattività, una malattia creata dalla storia».
Questo bisogno impellente di rimuovere ogni singolo dolore, come fosse una app da disinstallare dallo smartphone, cosa ci dice sulla società in cui viviamo?
«L’idea che nessuno deve essere infelice neppure per un momento ha creato il clima attuale. La gratificazione istantanea è il mantra: è favorita dalla disponibilità di tante macchine che hanno reso la vita più facile, dalle auto alle lavastoviglie agli iPhone, creando l’aspettativa che questa fosse la regola. Rispetto alla quale ogni deviazione produce una frustrazione».
Internet ha contribuito. Se voglio sapere qualcosa, lo trovo subito su Google. Se voglio leggere un libro lo scarico ora da Amazon...
«Certo, e l’abitudine digitale è tracimata nel regno dell’analogico. Come risultato siamo troppo facilmente delusi da un momento di infelicità in un matrimonio, in un’amicizia o al lavoro, al punto da essere pronti a tagliare subito quelle relazioni. In più molti adulti sono diventati coscienti dell’irrazionalità del comportamento umano, la capacità come specie di commettere enormi crudeltà e il fatto che un giorno il sole potrebbe smettere di scaldarci e scompariremmo. Conoscenze che portano alla conclusione che la vita è un gioco a dadi su cui l’individuo non ha controllo. Una consapevolezza che spinge a pensare che “il piacere ora” sia l’unica strategia esistenziale razionale. La conoscenza, come si vede, non sempre libera gli uomini».
C’è una via di uscita da quello che un suo collega di Harvard, Evgeny Morozov, chiama «soluzionismo» tecnologico? E come potremmo riapprendere un’attitudine più sana nei confronti dei nostri limiti?
«Non c’è modo di impedire il dominio della tecnologia sulle nostre vite. È possibile, suppongo, cercare di resistere ai suoi effetti, ma anche questo è difficile. Montaigne scriveva: “La moderazione prima di tutto”. Ogni volta che gli esseri umani portano un’idea, un’abitudine, una pratica oltre a un punto di rottura, da questo possono scaturire effetti collaterali nocivi».
Lei ha 85 anni, ha vissuto una vita lunga e, apparentemente, piena di soddisfazioni. Quali meccanismi di difesa potrebbe consigliare ai lettori?
«Oggi ho il vantaggio di essere in pensione, fuori dalla follia del mondo del lavoro. Quindi posso ignorare le pressioni e godermi il ruolo di spettatore. Ma sospetto di essere stato aiutato dal riconoscere, già da giovane, che gli eventi fortuiti giocano un gran ruolo nella vita. Perciò nessuno dovrebbe colpevolizzarsi troppo per ogni fallimento. Ognuno di noi è in una barchetta in un gran mare agitato e la nostra rotta sarà determinata, in parte, dal vento e dalle azioni degli altri. Ho anche accettato che la tristezza, la rabbia e l’invidia sono naturali e ci si deve aspettare che si presentino regolarmente. Accettatele, passeranno presto. Infine, bisogna comprendere che tutti gli umani, inclusi i nostri amati, possono essere colpiti da pensieri irrazionali che nessuno è in grado di modificare. Ciascuno deve avere uno scopo nella propria esistenza e seguire un qualche ideale morale, pur sapendo sempre che sia lo scopo che l’ideale sono nostre invenzioni».

Riccardo Staglianò, il Venerdì di Repubblica 18/4/2014