Paola Zanuttini, il Venerdì di Repubblica 18/4/2014, 18 aprile 2014
COME RIEDUCARE UN MILIONARIO
Roma.
Da qualche mese l’affidamento in prova ai servizi sociali, che è legge dal 1975, si è ridotto a una questione di cessi da pulire. Per l’esattezza, quelli di don Mazzi che, a ottobre, invita l’ex premier a scontare la pena nella sua comunità Exodus: «Vorrei che facesse silenziosi e umili lavori manuali, a partire dalla pulizia del bagno. Come faceva quando aveva 15 anni e non aveva tutto il potere a cui si è abituato ora». Subito si accoda il bancarottiere fraudolento ed evasore Lele Mora che proprio a Exodus si sta riabilitando. Dichiara che sarebbe felicissimo: «Pulirei i bagni insieme a lui». A novembre, lo slittamento da bagni a cessi è opera di Berlusconi stesso. Con linguaggio più informale, al Meeting dei giovani di Forza Italia («... A parte l’umiliazione che consente a Don Mazzi di dire Berlusconi venga qui a pulire i cessi...»), definisce ridicola l’idea che a un ex presidente del G8 si accosti il concetto di riabilitazione. C’è dell’ironia involontaria in questa affermazione, ma è anche vero che rieducare i ricchi e i potenti non è uno scherzo.
Nel 1978, quando era un giovane magistrato di sorveglianza a Venezia, l’attuale capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino pubblicò sulla rivista Qualegiustizia un articolo che sarebbe utile rileggere oggi: La rieducazione del miliardario. Ricostruiva il caso di Attilio Marzollo, agente di cambio veneziano protagonista nel 1971 di un colossale crac finanziario. Condannato a otto anni, aveva impugnato in Cassazione la richiesta di liberazione anticipata, rigettata dal Tribunale di sorveglianza perché, sebbene ligio, cortese, istruito, Marzollo non dava alcun segno di partecipare all’opera rieducativa: era già educato di suo. La Cassazione confermò la sentenza, così l’astuto agente di cambio cambiò strategia rivolgendosi in appello per richiedere non più la liberazione anticipata, bensì la condizionale, che non valuta la partecipazione all’opera rieducativa, ma il sicuro ravvedimento.
E Marzollo fu giudicato ravveduto perché, oltre a mostrarsi rispettoso del galateo carcerario, aveva in parte rimborsato il maltolto. Se lo poteva permettere. «Forse è più facile concepire una partecipazione alla rieducazione senza ravvedimento che un ravvedimento senza partecipazione» commentò amaramente il giovane magistrato di sorveglianza. Nel suo ufficio ai piani alti nel palazzone vagamente carcerario del Dap, Tamburino sa bene che tutto il chiacchiericcio sollevato dal caso Berlusconi sull’affidamento ai servizi sociali produce confusione e offusca i risultati di un provvedimento giudiziario civile, umano, ma soprattutto efficiente che riguardava al 31 marzo 11.446 condannati che devono scontare una pena o un residuo di pena non superiore ai quattro anni (con termini più clementi per tossicomani e malati, e più duri per chi ha commesso reati gravi): «Fra chi sconta la pena in questo modo la recidiva è del 30-40 per cento, mentre per chi la sconta integralmente in carcere arriva al 60-70 per cento. Bisogna anche dire che chi passa all’affidamento è sottoposto a una selezione che valuta, fra le altre cose, la predisposizione a delinquere nuovamente. Nel dare fiducia bisogna avere circospezione, però bisogna anche considerare un minimo margine di errore, accettabile per chi ha commesso un furto, ma molto meno per un omicida». E i colletti bianchi li riconoscono i loro errori? «È dura: si autogiustificano, si sentono i capri espiatori di un sistema che, secondo loro, ha sempre funzionato così. “Se lo fanno tutti perché ve la prendete con me?”: è la loro risposta classica».
C’è anche un equivoco sui servizi sociali. Non sono gli ospizi o le mense dei poveri che, eventualmente, vengono dopo. Sono quelli dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) con 58 diramazioni territoriali dove assistenti sociali e psicologi (1.539 contro i 4.205 della Francia e i 16.299 del Regno Unito, Paesi dove l’esecuzione penale esterna è al 70 per cento contro il nostro 30), vagliano l’atteggiamento del condannato rispetto al suo reato, l’ambiente familiare, le frequentazioni, la possibilità di trovare un lavoro o comunque di provvedere ai suoi bisogni, ma anche quella di prestare volontariato una o due mezze giornate a settimana per risarcire la comunità. Dopo l’indagine, si riferisce al magistrato di sorveglianza che decide. E che può in ogni momento revocare. E non è nemmeno tassativo fare volontariato. «A Venezia c’era il caso del marito di una signora gravemente ammalata: decidemmo che l’assistenza alla moglie fosse un valido motivo per l’affidamento» ricorda Tamburino. «Anche un ragazzo che decide di continuare gli studi garantendo la frequenza può ottenerlo. Si decide caso per caso, può essere concesso perfino a chi ha parenti criminali».
Naturalmente è concesso anche a tantissimi colletti bianchi, una buona metà dei condannati di Tangentopoli ci è passato, come ci sono passati i terroristi negli ultimi anni di pena. Di questi, moltissimi sono rimasti nel volontariato. Degli altri, un po’ meno, a parte il riabilitatissimo Sergio Cusani del processo Enimont. Dice Tamburino che, a differenza dell’Europa del Nord e degli Stati Uniti, l’Italia è ancora dominata dal pregiudizio che l’unica pena sia il carcere: «E se non c’è, si diffonde un sentimento di irrisione, ipocrisia, beffa». D’accordo, la pena non dev’essere vendetta, ma riabilitazione, però se un truffato vede che il tenore di vita del truffatore condannato è uguale a prima non ha tutti i torti a sentirsi beffato. «La misura restrittiva non dove essere una fotografia dell’esistente: anche le persone favorite dalla sorte devono in qualche modo scontare il reato, oltre ad assumersi le proprie responsabilità e risarcire la comunità, infatti sono sottoposte a controlli periodici, subiscono limitazioni negli spostamenti e non possono frequentare certi luoghi o persone elencati dal giudice. Perché la recidiva non è per niente estranea ai reati finanziari: su dieci bancarottieri condannati, due prima o poi ci ricascano». Chiara Ghetti, direttrice dell’Uepe di Venezia e del Provveditorato regionale del Triveneto, ha una lunghissima esperienza nel valutare prima e durante l’affidamento atteggiamenti palesi e reconditi dei condannati. «Anche nel rapporto con il nostro servizio: noi rappresentiamo lo Stato e dobbiamo vedere un minimo di disponibilità a riconoscere questo ruolo. Chi non ha mai fatto una lista d’attesa in vita sua e interpone la moglie per qualsiasi contatto con noi questa disponibilità non la dimostra. Il senso di superiorità ostentato da alcuni è messo in conto: magari vengono da situazioni difficili e sono pieni di rivendicazioni, ma non facilita la riflessione sul reato compiuto. Molte di queste persone hanno agito comportamenti di cui non consideravano le conseguenze: nel lavoro di riabilitazione bisogna ripartire da questo. E in Italia è più difficile rispetto, per esempio, agli Stati Uniti, dove già negli anni Quaranta si parlava di criminalità dei colletti bianchi oltre a quella legata alla marginalità. Da noi il giro di boa è stata Tangentopoli, ma il confine tra legalità e illegalità è reso più labile da una cultura sociale che non aiuta a riconoscerlo».
Poiché questi reati sono spesso compiuti (o coperti) da rappresentanti dello Stato, il lavoro di Ghetti e dei suoi colleghi nel ruolo dello Stato che punisce e riabilita non deve essere facile. Non è scontato nemmeno superare l’antipatia sociale verso un pedofilo o un corruttore: «È un’area sensibile che non va negata né minimizzata. Abbiamo gli strumenti per riconoscere i tentativi di manipolazione dei potenti ma anche per capire il disagio che provano quando vengono arrestati davanti alla famiglia, spesso tenuta all’oscuro di tutto, o quando il giudice comunica le limitazioni di movimento che il condannato dovrà osservare. Per chi è abituato a decidere per sé e per molti altri, è un trauma prendere atto che non c’è più questa libertà».
In Italia ci sono centinaia di enti, cooperative e onlus convenzionati con i vari Uepa che accolgono le persone in affidamento. A Venezia il progetto Mi Associo ha messo insieme 42 enti pubblici, compreso l’Uepe: il condannato, quindi, può fare volontariato nell’ufficio che supervisiona la sua pena. Dove un’assistente sociale, come nel resto d’Italia, può dedicare al suo affidato solo 28 minuti a settimana, causa carenza d’organico.
Paola Zanuttini, il Venerdì di Repubblica 18/4/2014
LA VITA DOPO PARMALAT MILLE EURO AL MESE E LA SERA NIENTE SBARRE – [Intervista a Maurizio Bianchi] –
MILANO.
Maurizio Bianchi è il revisore dei conti che certificò i bilanci falsi Parmalat. È stato condannato a sette anni e 4 mesi di carcere, poi diventati cinque con l’indulto e quattro con la buona condotta. Ha passato un paio d’anni in cella, poi ha usufruito dei benefici di legge che consentono al detenuto di uscire dal carcere per recarsi al lavoro e rientrare alla fine della giornata. Infine, da qualche settimana è in affidamento ai servizi sociali.
Com’è stata la sua esperienza in cella?
«A Como è stata dura. Eravamo quattro in 15 metri quadrati. Letto a castello a tre piani, quello più in alto a pochi centimetri dal soffitto. A Bollate, invece, gli spazi e la vita carceraria sono molto più umani. Ma 22 ore al giorno in branda a fare niente e a giocare a carte sono comunque la morte civile».
Lei come ha reagito?
«Mi sono dato da fare. Prima con le pratiche burocratiche per gli altri detenuti, poi cercando di organizzare un po’ di vita sociale dentro al carcere. Lì ho capito che se ci fossero meno guardie e più psicologi ed educatori le cose andrebbero meglio. Ma non è così. Chi ha bisogno di sostegno si arrangia, e quando esce è solo».
Poi ha ottenuto un lavoro esterno.
«Sì, la svolta vera. Me lo sono trovato da solo, accettando quel che passava il convento. Assunto come contabile da una società di consulenza. Abito a Como e lavoro a Milano. Sveglia alle 5.30, treno alle 6.40, metrò, poi a piedi fino all’ufficio. Rientro alle 20. Mille e cento euro al mese. Diciamo che negli ultimi dieci anni non ho navigato nell’oro. Ma i miei 15 mila euro al mese li prendevo».
Una bella differenza.
«Sì, ma è il lavoro che fa comunque la differenza. Ti dà dignità, fiducia, la possibilità di riacquisire un posto in famiglia. Ed è propedeutico all’affidamento in prova. È un vantaggio anche per i cittadini e lo Stato, perché il condannato che riesce a mandare un po’ di soldi a casa e torna ad assaporare qualche ora di libertà, poi è più difficile che torni a delinquere. Tra chi prendeva il bus con me per andare al lavoro c’erano delinquenti comuni, rapinatori, truffatori: la sera sono sempre rientrati tutti».
E con l’affidamento ai servizi sociali cos’è cambiato?
«La sera torno a casa, dalla mia famiglia, invece che in carcere. Ed è tantissimo, mi creda. Per il resto tutto è come prima. Ho avuto un solo colloquio con l’assistente sociale che mi ha preso in carico. Sono libero di muovermi in Lombardia, ho il cellulare, posso comunicare con chi voglio purché non si tratti di pregiudicati. L’unica noia sono i controlli di polizia durante la notte: ti ricordano che non sei un uomo libero. Ma è tutt’altra cosa che essere “dentro”».
Ad agosto finirà di scontare la sua pena. Un «uomo nuovo»?
«Mah, nuovo non direi. Non mi sento un delinquente. Sono finito dentro un meccanismo più grande di me, ma non ho una vita da cancellare. Di sicuro in questo mio percorso ho ritrovato cose che avevo perduto: solidarietà, amicizie, fede. E la sera, quando rientro, ho solo voglia di rilassarmi e godermi la famiglia».
Di Claudio Visani, il Venerdì di Repubblica 18/4/2014